1 apr 2016

Cactus alla ribalta

La storia breve di oggi è una delle più vecchie (risale addirittura al 2006) e proprio per questo necessitava di una spolverata niente male. Ci tenevo, però, a condividere con voi qualcosa di più allegro del solito. Potrei dirvi che si tratta di una favola che parla di come realizzare i nostri sogni, ma la realtà è che questo racconto appartiene più al genere comico, peggio ancora alla sua deriva delirante, quindi, se mal sopportate le storie che niente hanno a che fare con la serietà, fuggite lontano ora che potete!
Se non siete scappati (ahivoi) vi lascio al racconto:

Cactus alla ribalta


Era mezzogiorno. La giornata risultava secca, bollente, e il fatto che mi trovassi in un deserto rendeva difficile considerarlo strano. 
La mia ossessione continuava ad assillarmi, come dal giorno della mia nascita. Non odiavo la mia casa, anzi l’amavo, ma aveva sempre contribuito al problema, quel maledetto problema che non sapevo come risolvere: la mia passione per l’acqua.
No, non avete afferrato. Lo so che l’acqua piace a tutti, che serve a tutti, ma io avrei passato giornate intere a ingurgitarne, e semplicemente per il piacere di farlo.
Non ho mai saputo perché, ma sono nato così e questo è terribilmente assurdo, dato che sono un cactus. 
Ora, probabilmente, avrete capito meglio: per un appassionato dell’acqua come me, il deserto non è proprio il luogo ideale. Ogni goccia è rara come un diamante, bisogna combattere per averla, e può risultare difficile quando si rimane tutto il giorno piantati nella sabbia come una pianta.
I miei simili non parevano impensieriti quanto me, ma si preoccupavano davvero tanto quando cercavo di coinvolgerli in uno dei miei ragionamenti, misteriosamente.
Per mia fortuna, avevo dei fedeli amici d’infanzia sempre pronti ad ascoltarmi, coi quali condividevo un credo incredibile: l’immobilità era una condizione dannatamente svantaggiosa. 
Fu per questo che in quello storico dì, a mezzogiorno, cominciammo a muoverci.
Sì, sì, lo so cosa state pensando: che è una balla bella e buona, ma vi garantisco che è solamente questione di forza di volontà!
Coloro che non ci seguirono si fecero beffe di noi da subito, sostenendo che fossimo storditi per il troppo sole. Al che il mio amico Kip rispose:
«È per questo che ci stiamo allontanando!»
Ammutolirono. 
La nostra comitiva era composta da quattro baldi giovani cactus della miglior specie.
Il già citato Kip era, in gergo tecnico, un filocactusofoso, o se preferite un amico della sapienza cactus. Risultava certamente il più saggio, anche se credeva ai complotti, e faceva sfoggio della sua cultura a ogni occasione, specialmente quando non richiesto.
C’era poi Kob, un cactus rotondetto, paffutello… di grossa taglia? Ok, al bando il politically correct, era un cactus incredibilmente ciccione! La sua soglia di sopportazione del calore era decisamente inferiore alla media e non faceva che lamentarsene, lamentarsene, lamentarsene, reclamando per tutto il giorno la frescura della notte, che adorava fin troppo.
Il terzo cactus era Kas, alto e ribelle, con tanti fiori rossi a fargli da cresta. Amava fare il contrario di quel che gli si diceva. Volete capirne il motivo? Credo che non lo sappia manco lui. Questa volta la sua battaglia era rifiutarsi di stare fermi! 
E in fine c’ero io: Ket. Il leader carismatico, il coraggioso, lo spronatore, la magnifica mente che per pura coincidenza narra anche la storia.    
Inutile dirvi che, inizialmente, ci sentivano tutti carichi.
«Amici, vi rendente conto? Stiamo camminando! Non riesco quasi a pensare al caldo! Che caldo…» ripeteva Kob ogni due passi.
«Tu, al massimo, strascichi.» ribatté Kas col suo tono sarcastico. 
Kip ne approfittò immediatamente per intromettersi con le sue “logiche” deduzioni:
«Non devi stupirti, Kob. Il nostro, semplicemente, è stato un processo di continua e graduale trasformazione. Niente più che un perfezionamento, il raggiungimento di un nuovo stato, che potremmo facilmente contrapporre a…» 
«Lasciamo perdere queste cose!» mi intromisi prima che facesse notte. Un leader sa quando intervenire per il bene comune e quel che diceva Kip non aveva senso, o ero troppo stupido per capirlo, o entrambe le cose.
«Concentriamoci sul nostro piano. Ognuno dica il suo ad alta voce!» proposi per elettrizzarli.
«Trovare l’acqua!» esordii.
«Sfuggire al caldo!» mi seguì a ruota Kob.
«Dimostrare la complicità del sole con il disagio procuratoci!» aggiunse Kip tutto d’un fiato.
Kas rimase in silenzio.
L’osservammo per un po’, con una certa dose d’insistenza. Lui ci fissò a sua volta, impassibile (sì, avevamo anche gli occhi, non vedevamo il perché non averli, dato che potevano tornarci utili).
«Quindi?» lo spronai.
«Ehm… veramente… il mio obiettivo era muovermi. Punto.»
Sverdai. Quello era un problema che più problematico non si può.
Conoscendo Kas sapevo che, realizzando di aver già ottenuto quel che voleva, avrebbe semplicemente smesso di seguirci. Non aveva più niente da dimostrare e in quel caso diveniva atrocemente svogliato.
«Cactabubbole!» esclamò Kip con aria saccente «Tu non hai affatto portato a compimento il tuo obiettivo, Kas.»
Sembrava talmente sicuro di sé che mi aveva già convinto, peccato che non dovesse convincere me.
«Certo che l’ho fatto!» ribatté Kas, irritato.
«Non del tutto.»
«Sì, invece. Piantala di dire il contrario stupida pianta!»
Temevo che di lì a poco sarebbero finiti per fare a botte, ora che potevamo muoverci era uno dei nuovi “vantaggi”.
«E io continuo.» non si fece intimorire Kip «Il tuo obiettivo era camminare, no? Se smettessi di farlo regrediresti a uno stadio precedente, sarebbe come se non ti fossi mai mosso. Per realizzare effettivamente il tuo scopo sei costretto a renderlo una costante!»
Era la cosa più stupida e insensata che Kip avesse mai detto. Probabilmente fu per questo che Kas si soffermò a riflettere e infine annuì.
«Però non lo faccio per voi!» precisò ostilmente.
«Lo fai per coerente incoerenza.» lo assecondò Kip.
«Esatto!»
Continuammo a muoverci a lungo, fino alla gelida notte amata da Kob. Io avrei voluto dormire e Kip era d’accordo con me (avevamo scoperto che camminare tanto stancava) ma Kas continuava a camminare in cerchio con aria ribelle e Kob aveva deciso di saltellare in giro per la gioia del refrigerio.
Quel ciccione non riusciva a fare a meno di sorridere (sì, avevamo anche la bocca, ci sembrava brutto non averla, dato che avevamo tutto il resto) e la sua mole pareva ininfluente mentre effettuava piroette a mezz’aria o spaccate in volo.
«Che meraviglia!» schiamazzava costantemente.
Eravamo abituati a sentirlo benedire le basse temperature ma, ora che potevamo muoverci, avremmo dovuto sopportare anche quei folli balletti.      
«Ti regalerei un tutù!» sghignazzò Kas «Se sapessi cos’è…» aggiunse turbato.
La felicità di Kob durò fino al mattino seguente, quando tornò il caldo e le sue lamentele in merito. Riprendemmo il cammino.
Morivo di sete, dalla partenza non avevo avuto modo di bere una sola goccia d’acqua e per questo mi sentivo a pezzi. La stanchezza consentiva allo sconforto di farsi largo e questo mi portava a domandarmi se avremmo mai trovato quel che cercavamo. Purtroppo per me, ero un leader, e gridare «Abbiamo fallito!» fuggendo lontano e con le lacrime agli occhi, non rientrava fra le possibilità. Quindi mi feci coraggio. Dovevo dare l’esempio alle truppe, non farle prendere dal panico e guidarle verso imprese eroiche! Anche se il successo non era certo, anche se rischiavamo di perderci (cosa probabilmente già avvenuta) saremmo andati avanti! Per il nostro onore! Per i nostri ideali! Per la libertà!
Il mio delirio eroico sarebbe rimasto nascosto alla storia per sempre, se non mi fossi messo a gridare le ultime parole ad alta voce.
Vedendo un povero cactus al centro del deserto, che inneggia senza alcun motivo all’onore, gli ideali e la libertà, i miei compagni, all’unanimità, discussero la possibilità di portarmi in un reparto psichiatrico. Poi rammentarono che, per quanto ne sapessero, fino a quel momento nessun altro cactus si era mosso, né si era mai dimostrato interessato ad aprire un ospedale, figurarsi con un reparto di psichiatria. Furono dunque costretti a ignorare il mio comportamento, o meglio, a discuterne con bisbigli alle mie spalle e con gesti che rappresentavano il mio stato mentale.
Riassumendo: ero stanco, demoralizzato, preso per pazzo, ma soprattutto assetato…
Avrei bevuto la stessa sabbia, se solo fosse stato possibile. Fu quello stato d’animo a portarmi a ignorare, in lontananza, il verde delle foglie di una palma. Non potevo permettermi di farmi ingannare da un tale, lapalissiano miraggio e subire le giuste e conseguenti prese in giro. Per questo avrei ignorato ben più delle foglie della palma, avrei ignorato anche il suo lungo tronco flessuoso, avrei ignorato le sue gemelle, che sembravano formare una giungla, avrei ignorato l’erbetta che originava un manto, sostituendosi alla sabbia, avrei ignorato gli animaletti che, sorridenti, mi facevano cenno di raggiungerli per godere con loro di quella meraviglia, avrei ignorato i miei compagni che, con le lacrime agli occhi, correvano in quella direzione fra le grida di gioia: «Un’oasi! Un’oasi!». Ma, soprattutto, avrei ignorato quella spropositata quantità di acqua che fluiva in numerosissimi corsi, convergendo verso un paradisiaco e azzurro lago che brillava alla luce del sole.
No… aspetta. Quello non potevo ignorarlo! Acqua! Immense quantità d’acqua! Che m’importava s’era un miraggio? Sarei morto felice!
Iniziai a correre a mia volta. Io e i miei compagni eravamo davvero in un’oasi! L’unica alternativa credibile mi vedeva in camicia di forza a ridere fissando il muro di una stanza vuota, ma, avendo già appurato che i manicomi cactus non esistono, potevo stare tranquillo. L’oasi era reale ed era chiaro che sarebbe stata la nostra meta!
Qui, si conclude la nostra storia, poiché ogni membro del nostro gruppo trovò quel che cercava:
Kob, grazia a quelle palme gigantesche, scoprì l’ombra, che anche durante la giornata più calda gli consentiva di stare al riparo e ballare.
Kip, osservando il lago, scoprì tutti i segreti dell’evaporazione dell’acqua, dimostrando l’atroce responsabilità del sole in questo complotto.        
Ket, quindi io, imparò felicemente a nuotare e fare immersione, scoprendo perché gli altri cactus non bevevano così tanta acqua (ma questa è un’altra storia).
Il lieto fine, o una cosa del genere, vi fu per tutti e quell’avventura ci dimostrò che i nostri sogni e desideri, grazie alla perseveranza e un’indomita forza di volontà, non sono impossibili da realizzare (solo altamente improbabili).
Come? Non vi ho detto che fine ha fatto Kas? Scusate, me ne stavo dimenticando. Beh… credo stia ancora camminando, lì, da qualche parte! 


Fine
   

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