12 dic 2016

Alba - Audiolibro

Oggi parte un altro esperimento: ho provato, con tutta la mia inesperienza, a registrare e "interpretare" l'ultima storia breve scritta. 
Ho imparato subito che a un testo breve non corrisponde una registrazione poi tanto breve... 
Ci tengo a scusarmi in anticipo per la qualità della registrazione e altre imperfezioni. Ho ancora tanto, tantissimo da imparare.
Ditemi voi se vale la pena insistere o è molto meglio desistere. 
Buon ascolto:




Per farmi perdonare e chiarire quanto mi prenda sul serio allego anche gli errori e altre follie avvenute durante la registrazione. Questo audio, per fortuna, dura a malapena due minuti!
Buon delirio:




25 nov 2016

Alba - Storie della Theria

Dopo essermi confrontato con la più classica delle crisi d'ispirazione, oggi ho deciso di proporvi una storia breve scritta in questi giorni. Appartiene al genere fantasy e alla stessa ambientazione del viaggio di Edrian Avamhaeir. In questo caso, però, si tratta realmente di narrativa, quindi spero di non annoiarvi.
La storia è ambientata in Theria (se volete sapere di più su questa terra premete qui) e preferisco non anticipare altro. 
Vi lascio alla lettura:

Alba
 Storie della Theria


L’alba è più bella, quando non sei povero.
Non capisci perché, te lo leggo negli occhi.
Ne ho discusso tante, troppe volte, credimi. Provavo a descrivere le fatiche del lavoro nei campi, la miseria, ma ribattevano che la bellezza dell’alba poteva, anzi, doveva essere un conforto. Un dono del quale essere grati.
Non erano in grado di arrivarci, anche se sono io l’ignorante.
So che vivete l’alba come un momento speciale, persino magico, ma è perché non la vedete ogni giorno, perché potete scegliere di cercarla o imbattervici per caso, senza mai realizzare di custodire il privilegio di valorizzarla.
L’alba non determina chi siete, non scandisce la vostra giornata, il vostro destino.
L’alba è bella, lo so. Non pensare che voglia negarlo. Ma tu non negare a te stesso, e specialmente a me, che soltanto nei vostri occhi può brillare liberamente.
Non parlo come un contadino, dici? Un tempo non avrei colto il disprezzo insito nelle tue parole.
La verità è che, per un nobile guerriero grental, è scontato sentirsi superiore a chi sostiene di difendere. Quanta ipocrisia.
Che Ladarco mi sia testimone: quando ero giovane non sapevo realmente chi foste.
Lavoravo vicino al forte che porta il vostro nome, ero nato in quelle terre, ma non conoscevo le vostre origini.
Mentre percorrevate al trotto le stradine attigue ai campi, vedevo soltanto dei cavalieri, con stupende armature che riflettevano i raggi del sole.
Mi accecavate e io vi ammiravo, sognavo di essere uno di voi. Dicevano che era impossibile, ma non conoscevo il vero perché. Non avevo modo di farlo.
Voi eravate gli eroi che ci proteggevano col mandato del Re, i nemici erano altri: i perversi stregoni di Eltharia e i sanguinari ubelivysk, desiderosi solamente di ucciderci o renderci schiavi.
Puoi smetterla di guardarmi con disprezzo, sto ridendo perché posso permettermi di farlo.
Tu sei mai stato al fronte? No, è evidente. Se vi fossi stato sapresti quali di quegli orrori sono reali e quali non osano nemmeno raccontarci.
Fui reclutato nel Selathor del 1070; non ricordo la quintana, ma per un villico è già tanto sapere l’anno, giusto?
Sapevamo soltanto che gli ubelivysk imperversavano per le campagne di Gòrados, niente di nuovo.
A pensarci ora, quel bisogno di braccia, sottintendeva che le stavate prendendo.
Ero forte e giovane, per un disgraziato; devoto a voi, galvanizzato dalla sciocca convinzione che seguirvi al fronte e combattere al vostro fianco mi avrebbe reso un grental. Perfetto per i vostri scopi.      
Fui addestrato rigorosamente sotto il comando di Robrek Kano. La cosa ti stupisce? Arrivò a complimentarsi con me in più di un’occasione, mi trasformò in un esempio per gli altri.
Dei, se ripenso a quanto mi rese orgoglioso sento già le lacrime rigarmi il volto. 
Pensavo che il mio futuro sarebbe stato radioso, la mia determinazione era sufficiente a ottenere qualunque risultato.
Sciocco, sciocco ragazzo.
Hai mai visto la fortezza di Kamenae? Di certo non coi miei occhi di allora. Eravamo un esercito che andava a punire i barbari e a salvare gli innocenti. La nostra marcia era un rombo, riecheggiato dalle mura.
Essere parte di tutto quello… mi mancano le parole necessarie a farti capire.
Non le trovo neanche per descriverti la battaglia di Ormok del 1071. Lo avranno fatto altri, appartenenti a schieramenti diversi.
Ti sei mai sentito totalmente impotente? Non lo realizzai poco alla volta, ma in un istante. In un istante si palesò la realtà: quei pochi mesi di addestramento non valevano niente. Eravamo carne da macello. Capii anche questo in un istante, quando le frecce dei groba trapassarono i compagni che avevo imparato a chiamare fratelli, quando i mastini ruwurgoor li sbranarono per scompaginare delle fila che non erano mai esistite, così che i frwagaan caricassero con un grido che la mia mente rievoca ogni notte.
Dei… ho imparato tutti gli impronunciabili nomi di quei figli di puttana, ma ancora non sono in grado di concepire quella furia.
Se mai dovrai combatterli, ragazzo, impara che i demoni hanno più pietà degli ubelivysk.
Forse sarebbe stato meglio morire quel giorno, non te lo so dire, davvero, ma so che quella seguente non fu vita.
Venni catturato, e no, questo non contraddice il discorso sulla pietà degli ube.
Sai cosa significa ubelivysk? Niente di più di “uomo cinghiale”. Quei figli di puttana li amano i cinghiali.
E sai come chiamavano noi? Livyskshlaart: “uomini fatti di merda”. Ma se fai il bravo, puoi aspirare a diventare un ubeshlaart: “merda di cinghiale”. È un nome appropriato, perché dell’uomo a quel punto non hai più nulla, ti hanno masticato e cagato, quindi adesso hai qualcosa del cinghiale e questo gli basta. No, non per lasciarti in pace, sei sempre uno schiavo, ma hai la possibilità di vivere più di una manciata di anni. Sai, nella loro gerarchia gli schiavi non valgono come degli oggetti. Valgono meno.  
È meglio che non riviva un secondo di più di quei giorni. Non vuoi sentire, non vuoi sapere cosa devi fare per meritartelo, quel titolo.   
Scoprii più avanti che mi avevano portato molto più a nord di quel che pensassi, non troppo lontano da Ryvalcorn. Non sapevo neanche quanto tempo fosse passato e ti stupiresti di come possa diventare un uomo in meno di un anno. Dentro di me sapevo di essere al limite, avevo sentito racconti su schiavi che avevano retto anche più di un decennio, ma non sono in grado di capire come.
Arrivi a quel punto che… e non è orgoglio, l’orgoglio non sai più cos’è da un pezzo, è quel punto in cui non ti racconti più delle favole e pensi: “Che mi ammazzino”. È un momento di lucidità, in mezzo a tante altre cose molto più squallide, sei persino fortunato se riesci a cogliere l’attimo, prima che qualcosa in quella mente persa ti riconduca all’ennesimo masochistico sragionamento.
In uno di quei momenti mi andò bene.
Oh… li avevo visti torturare l’ultimo che aveva provato a scappare; quella era durata poco, credimi, sarebbe stata la scelta giusta anche se mi avessero preso.
Perché non l’hanno fatto, ti chiedi? Perché anche se impiegai troppo a comprenderlo, quello fu il giorno più fortunato di tutta la mia fottuta esistenza.
Non sapevo dove fossi, non sapevo dove andare e non avevo forze. A loro bastavano i mastini.
Stavo vuotando la vescica su un albero morto, quando li sentii abbaiare. Dovrebbe bastarti a comprendere il mio stato mentale.
La bestia più veloce si avventò sulla mia gamba e sulla mia faccia, puoi riconoscere i segni da te; non ho smesso di zoppicare un giorno.
Pensai davvero di essere fortunato, non ti sto mentendo, il ruwurgoor si stava scatenando, e mi avrebbe maciullato ben prima che il suo padrone groba riuscisse a richiamarlo.
Fu abbattuto dalla freccia di un rodem. Potresti pensare che avesse un’ottima mira, ma la realtà è che non gliene fregava un cazzo di sbagliare e centrare me anziché il mastino. 
Sai cosa stava succedendo? Mi ero trovato in mezzo a un’incursione di barbari rodem contro gli ube. Se fossi rimasto al mio posto avrei dovuto combattere, come ogni ubeshlaart, ma il mio gesto sconsiderato era stato provvidenziale.
È folle aspettarsi che la vita funzioni in questo modo, perché c’è sempre un prezzo da pagare.
Quel giorno passai dall’essere uno schiavo degli ubelivysk a essere uno schiavo dei rodem. Pochi la considererebbero una benedizione, ma io lo feci.
Amavano prendermi in giro, umiliarmi. Io sorridevo e loro pensavano di avermi spezzato. Sorridevo perché sapevo che quello non era niente.
Si stancarono di me presto e fui venduto, più volte, persino a prezzi ridicoli.
E un giorno fu lei a comprarmi.
Mise piede in quel villaggio dimenticato dagli dei come una regina. Il nostro re non l’ho mai visto, sai? Considerato lo stato in cui mi trovavo e confrontandolo col suo, con le sue movenze, il suo portamento… se avessi in mente quell’immagine non potresti contraddirmi.
Eppure, quando capii chi era, l’incanto si trasformò in puro terrore.
Ci pensi? Ero sopravvissuto agli ube, mi ero abituato a essere uno schiavo, eppure sapere che quella donna era una maledetta strega elthariana mi fece gelare il sangue.
Dei, mi avete infilato in testa tante di quelle stronzate che, in quell’istante, ho persino pensato di rubare il coltello di un rodem per recidermi la gola.
Le prese in giro di quei barbari mi scalfirono per la prima volta. Sarei stato il sacrificio di sangue di una sposa di Mihen, che avrebbe danzato con la mia testa mozzata in mano, lusingata da risate demoniache.     
Si chiama Varely Wel-Ghaél, è una maga dell’accademia dei Serpenti di rubino, ed è la donna più intelligente e altruista che io abbia mai conosciuto.
So cosa stai pensando: che una dama per bene non avrebbe alcun contatto con dei vili barbari. Potremmo discutere a lungo di questo e delle vere origini della tua stirpe. Mi limiterò a dire che quella donna ha un coraggio che tanti di voi possono scordarsi.
I rodem sono violenti, ma superstiziosi, Varely e alcuni membri della sua cerchia lo sanno bene. Sfruttano i loro poteri… perdonami, lei preferiva li chiamassi “studi”. Sfruttano i loro studi per impressionarli, evitare incursioni e altre complicazioni, in modi che non esisteresti a definire pratici. Qualche volta finiscono persino per salvare un’anima.
Sei stupito? Non riesci a credere che un’elthariana, una maga, abbia disinteressatamente liberato un figlio dei Thanrir come me?
Puoi credere che abbia visto qualcosa nei miei occhi, o a seconda di quanto sei stupido che volesse rendermi suo schiavo. Non mi interessa.
Lei mi ha ridato la vita, e non dovresti dubitarne.
Credi che a quel punto non fossi morto dentro? Non fossi convinto di essere irreparabilmente rotto? Impossibilitato a credere in qualcosa, qualunque cosa?
Fui diffidente, ribelle, ottuso e superstizioso come voi mi avete cresciuto. Lei fu paziente, dolce, sentii che capiva il mio dolore o che almeno provava a farlo.
Era bella? Certo che lo era, ma non è questo il punto, so cosa cerchi di insinuare.
Cedetti a piccoli passi, mentre recuperavo le forze. Da poche parole finimmo per discutere per ore, giorni interi.
Sono un ignorante, ma lo ero molto di più. Non mi giudicava, mi aiutava a capire.
Finii per esserle grato, il suo scopo, dirai. E sai che accadde? Cercai di renderle il favore, mi offrii di fare qualunque cosa per ripagare il mio debito, anche il più umile dei lavori. 
Mi ritrovai a farle da domestico, praticamente. Ridi pure quanto ti pare.
“Qualche altro mese”, “Qualche altro mese”, le ripetevo, “Giusto il tempo di ripagarti”.
Sono rimasto due anni con lei, mettendola persino in imbarazzo con una tale devozione, ne sono certo.
Mi ha insegnato a leggere e scrivere, a usare termini meno volgari, per quanto cada ancora nel vizio.
Quasi ogni sera ci confrontavamo su un argomento. Lei voleva sapere come la pensassi, anche se il più delle volte non capivo di cosa parlasse e non avevo una vera opinione. Nessuno mi aveva insegnato che potesse avere un valore. Nessuno mi aveva insegnato a formarmene una.
È così che ho scoperto il significato di parole ignote, come propaganda. È così che ho scoperto di epoche che non ho vissuto, che il mio re, che straparla di libertà per tutti i theriani, in realtà ha venduto la mia gente a voi, barbari grental che ora si fanno chiamare cavalieri. Tutto questo per salvaguardare la sua libertà, mentre altri si spaccano la schiena per una vita intera o muoiono per consentire a pochi di godersi i piaceri della vita.
Mi ha plagiato? È questo che sostieni?
Potrei dirti che hai ragione, ma il vero problema è che, anche se lei avesse mentito, siete voi che avete vinto. Siete voi, che mi avete plagiato meglio.
La contestavo.
Ero palesemente l’idiota, in quella sala, ma mi aveva insegnato ad avere l’ardire di contraddirla.
“Non può essere”, ho ripetuto fino alla nausea. Cercavo giustificazioni e non volevo cedere su nulla.
Era in grado di accettarmi anche così.
Vuoi la verità? Ho sentito anche le opinioni di elthariani che ci odiano e Varely mi ha parlato di maghi che realizzerebbero realmente le nostre paure, se solo avessero la strada spianata. Ma così non è.
C’è un’unica cosa che posso recriminarle: mi ha convinto davvero che la mia parola contasse qualcosa. Ho confuso il valore che avevo per lei con il valore che voi potevate darmi.
Ho deciso di ripartire anche per altre ragioni. Volevo far sapere ai miei famigliari che stavo bene e pensa un po’, dopo essere arrivato così lontano, provavo persino una sciocca nostalgia di casa.
Lei mi diede un anello d’argento e un bacio, chiedendomi di tornare, se e quando avessi voluto.
Nel viaggio di rientro ho visitato la costa orientale, visto grandi città, ascoltando con una mente nuova parole che sottovalutavo e condividevo, che ora mi lasciano spiazzato, inorridito.
Sono stato coinvolto in qualche rissa, lo confesso, confesso persino di aver dato il primo pugno. Ma uno zoppo tende a prenderne, più che a darne.
E finalmente ho raggiunto il forte dei grental.
Immagina il mio stupore quando ho incrociato lo sguardo con Robrek Kano, il mio vecchio comandante, sopravvissuto alla battaglia di Ormok come me, ma senza farsi catturare. Un eroe del regno.
Avrei avuto l’ardire d’abbracciarlo, ho disimparato qual è il mio posto. Lui preferì concentrarsi sul mio anello. C’è un serpente in rilievo, sai? E pare che il comandante odi la gioielleria elthariana.
Vuoi che ti dica che la guerra l’ha reso paranoico? Non puoi permetterti di rispondermi, ma conosci il resto della storia.
Accusato di diserzione e tradimento. Una spia dei Serpenti di rubino. Quanta carriera ha fatto questo contadino?
Un contadino era e un contadino rimane, la cui vita è scandita dall’alba.
Impiccatelo all’alba, che crudele ironia.
Senti ragazzo… tu puoi credere alla storia che vuoi, sei giovane e nobile. Ti hanno posto a guardia di uno sventurato affinché non scappi, affinché fronteggi ancora una volta quella luce rosata che non riesce ad apprezzare. Ma dovrai farti le ossa, un giorno.
Posso chiederti un solo favore? Uno soltanto: ricorda che il mio nome è Nathan Redo e che oggi, per difendere la terra della libertà, ucciderete un vero theriano libero.


Fine

2 ott 2016

La terra del fulmine rosso

La spolverata di oggi tocca a "La terra del fulmine rosso". Una delle storie "brevi" più lunghette, per la quale ricorrerò ai classici paragrafi numerati. I nomi dei personaggi derivano dalla mitologia inca, che ho nascosto qua e là, ma in un racconto del tutto indipendente e con le sue licenze. Non è adatta ai bambini.
Buona lettura:

La terra del fulmine rosso


LE TERRE TUONERANNO PER I FULMINI

I FIGLI DI APOCATEQUIL.

IL TIMORE RENDERÀ GLI UOMINI UMILI

ED ESSI AVRANNO LA PACE.

LA CONDANNA È IL DESTINO

PER CHI SI MACCHIERÀ DI SUPERBIA

FINO A SFIDARE GLI DEI.

L’INSOLENZA SARÀ DISTRUTTA.

IL SEGNO DAL CIELO

ALLA CADUTA DEL FULMINE ROSSO.


(1) Era il tramonto.
Inti osservava la sua terra seduto sopra una roccia. Un luogo maestoso, magico, circondato da monti imponenti e percorso da silenti melodie.
Alle sue spalle si ergeva la città, di fronte a sé l’abisso. Amava stazionare sull’orlo.
Il suo sguardo si mosse verso il sole, tinto d’arancio, un fratello benevolo.
Sapeva che la pace non sarebbe durata a lungo.
Rombò un tuono e una serie di fulmini caddero dal cielo, intrecciandosi e cingendo le materne alture.
Venne colto da un brivido. Accadeva regolarmente, ma era difficile resistere a quell’inconscio timore.
I fulmini erano la manifestazione del dio Apocatequil, il segno della sua tutela. Un dono che intimoriva sia i nemici che i protetti.
Inti sospirò e scese dalla roccia. Il cielo si stava scurendo ed era meglio tornare a casa.

(2) Il ragazzo abitava in una delle numerose case popolari, lontano dal grande tempio di Apocatequil. Era nato in una famiglia di lavoratori, un granello della forza del popolo, ma non se ne lamentava. La vita era serena e non gli serviva più di quel che gli era stato dato. Il valore dell’umiltà veniva insegnato presto, così che non si peccasse di superbia: la sfida agli dei.

(3) Inti raggiunse l’uscio di casa. All’interno lo aspettava la sua famiglia e una scodella di cibo caldo.
Sarebbe stata sua madre Chasca a porgergliela, come sempre. Una donna pacata, che si occupava di tutti loro senza pretendere un grazie.
Suo padre Pacha, invece, si sarebbe lamentato di un presunto ritardo. Era un uomo di fede, un costruttore instancabile costretto a riposo da un grave infortunio alla gamba. La sua severità si abbatteva specialmente su Kon e Coyllur.
Il primo era il fratello maggiore di Inti e aveva sostituito il padre a lavoro. Si trattava di un compito ingrato e faticoso, che gli lasciava a mala pena il tempo di mangiare e dormire.
La seconda era sua sorella minore: vitale, spensierata e terribilmente invadente. Uno spirito libero amato della madre e, per le stesse ragioni, tenuto d’occhio dal padre.
Li caratterizzavano la carnagione rossa, i capelli neri e gli occhi di un castano intenso. Le donne portavano lunghe trecce e gli uomini un taglio corto, che non fosse d’impiccio a lavoro. Solamente i nobili potevano permettersi capelli lunghi e sciolti. 

(4) Inti fece il suo ingresso.
La loro casa era modesta: composta da una sala centrale e due stanze per il riposo. La seconda era persino un lusso.
«Il tuo cibo è diventato freddo.»
La voce lamentevole del padre non tardò di un istante.
Inti gli sorrise e, senza obiettare, prese la sua scodella e iniziò a mangiare. Perché sottrargli quello svago?
Il cibo era ancora caldo, era chiaro che avessero appena iniziato.
Mentre suo padre l’osservava torvamente, sua madre si sedette. S’imponeva di farlo quando erano tutti presenti e si riservava sempre la scodella più vuota. 
Coyllur provvide a versarle parte del proprio pasto.
«Me ne hai dato troppo.» affermò con un sorriso.
Mentre Chasca arrossiva e scuoteva il capo, Pacha intervenne.
In un istante riversò l’offerta della figlia al suo posto.
«Devi mangiare.» intimò, senza guardarla negli occhi «Se non metterai su un po’ di carne non troverai mai un uomo. Non sarai abbastanza fertile. E renderai impossibile che ti noti qualcuno delle alte caste.»
«Forse non è il futuro che Coyllur desidera.» sussurrò la madre.
«Ma è il futuro che, noi, ci auguriamo.» decretò Pacha.
Coyllur non era una ragazza mite ed era già pronta a ribattere, ma in quell’istante Kon si alzò bruscamente. La sua scodella era già vuota.
«Vado a riposarmi…» mormorò, per poi dirigersi a letto.
«Devi aspettare che finisca il capo famiglia!» sbraitò Pacha, ma il figlio era troppo stanco per dargli corda e non si fermò.
«Non voleva mancarti di rispetto.» gli assicurò Chasca, sfiorandogli una spalla «Sai bene quanto è duro il suo lavoro.»
Pacha scosse il capo.
«L’ho fatto per decadi e non ho mai dimostrato impertinenza!»
Inti era abituato a quelle ripetitive discussioni famigliari. Preferiva ascoltarle piuttosto che gettarvisi a capofitto, comprendere cosa si nascondesse dietro le parole.
Aveva imparato dalla madre a capire le persone, e proprio perché le capiva era difficile che se la prendesse, o che perdesse il controllo.
In quel momento si chiedeva a cosa, il senso del dovere del padre, lo avesse effettivamente portato. Aveva sempre ammirato la sua fierezza, ma si chiedeva se fosse giusto che, il frutto di una tale inflessibilità, fosse l’immobilità a una gamba.
Sapeva che il padre, più che domandarsi questo, si dannava e riteneva inutile.
«Quel ragazzo non ha rispetto degli dei.» bofonchiò proprio in quel momento.
Coyllur scosse la testa.
«Ma certo che è rispettoso, Pacha.» provò a rasserenarlo la moglie.
«Dovrebbe sapere cos’accade ai superbi!» proseguì il marito, alzando la voce «La condanna è il destino, per chi si macchierà di superbia, fino a sfidare gli dei. L’insolenza sarà distrutta! Il segno dal cielo, alla caduta del fulmine rosso!»
Inti aveva perso il conto di quante volte, il padre, avesse citato la sacra incisione del tempio. Una profezia remota.
«Calmati Pacha, sono certa che non pioverà nessun fulmine rosso, e che Apocatequil perdonerà nostro figlio, che fa il proprio dovere ogni giorno.»
Il padre di famiglia, finalmente, si rilassò. Aveva bisogno di rifarsi alla fede per schermarsi da ciò che la stessa fede gli faceva temere.
«Mi auguro sia così...»

(5) Con l’incombere della notte, tutta la famiglia andò a riposare.
Per Inti il sonno fu agitato. Sognò uomini sconosciuti, che non temevano i fulmini. Li vide rubare, uccidere, dar fuoco alle case.
Furono gli stessi fulmini a svegliarlo, di soprassalto.
Si tirò su, accorgendosi che i fratelli dormivano ancora.
Era agitato, e si domandò se quel sogno non custodisse un oscuro significato.
Suo padre lo avrebbe certamente deriso. Tutti temevano i fulmini di Apocatequil,  solo uno sciocco avrebbe creduto il contrario. Eppure il timore non venne meno.
Decise di uscire di casa, per osservare le stelle e tranquillizzarsi.
Appena mise un piede fuori si accorse che gli astri erano più luminose che mai. Non aveva mai visto la luna così immensa e maestosa.
Guidato da una luce argentata, Inti si diresse al suo posto preferito: la soglia dell’abisso.
Notò subito che sopra la sua roccia si ergeva qualcuno, di spalle, che osservava la grande luna.
Senza volerlo strusciò sul pietrisco e lo sconosciuto si voltò, permettendo ai raggi argentei d’irradiarne il viso.
Era una giovane donna. I suoi lunghi capelli neri erano sciolti, ma fu ben altro a catturare l’attenzione del ragazzo: iridi argentate come i raggi della luna.
Doveva essere una visione.
Lui piuttosto, agli occhi di lei, pareva un’ombra sbucata dal nulla, e spaventarsi fu un’ovvia reazione. Conseguì la perdita dell’equilibrio.
Inti si risvegliò dall’incanto e scattò in avanti, tirandola verso di sé con tutte le forze.
Caddero entrambi, fortuitamente dal lato giusto.
«Chi sei?» ansimò la ragazza.
Inti, scosso, tentennò. Era sopra di lui e la cosa lo metteva piacevolmente a disagio.
Deglutì.
«Mi chiami Inti.»
La ragazza lo fissò, realizzando quale fosse la loro insolita posizione. Si sollevò di scatto, imbarazzata, rischiando di capitombolare una seconda volta.
«Non volevo spaventarti, perdonami.» si scusò lui, alzandosi a sua volta «Per fortuna è andato tutto bene.» aggiunse grattandosi il capo.
Gli occhi della ragazza brillavano argentei. Non era merito di un riflesso lunare, erano proprio di quel colore. Ora, però, sembravano infiammati dall’ira.
«Tutto bene?» gli fece il verso «Stavi per farmi cadere! E se non te ne sei accorto non ho ancora le ali!»
Il ragazzo era ancora un po’ confuso.
«Vuoi dire che un giorno avrai le ali…?»
La fece ammutolire.
Si osservarono ancora per qualche istante, in silenzio e Inti realizzò quanto fosse stata stupida la sua replica; ma ormai era troppo tardi. La ragazza si stava già allontanando.
«Non… non mi hai detto come ti chiami!»
Non ricevette alcuna risposta.

(6) Inti tornò a casa, maledicendosi per la sua goffaggine. Non si aspettava una nottata simile e, tralasciando il rischio di cadere in un abisso profondo migliaia di metri, l’incontro con la ragazza gli era rimasto impresso.
Quegli occhi erano magnifici, come il suo viso, persino quando era arrabbiata.
Era certo che appartenesse alle alte caste. Non indossava abiti logori come i suoi e aveva notato persino qualche gioiello.
Il ragazzo si sdraiò nel proprio letto, addormentandosi serenamente. Gli incubi, ora, cedevano il posto a piacevoli sogni.

(7) La mattina seguente si alzarono tutti di buona lena. Era una giornata importante: la festa della nascita della famiglia reale.
Nelle loro vene scorreva il sangue divino di Apocatequil, fattosi uomo e unitosi a una donna per dare vita al primo sovrano: Kamaq.
I successori di Kamaq, protetti dal dio, governavano di diritto quelle terre e diffondevano il suo verbo come legge.
Ora i regnati erano Qhapaq e Coya. Devoti come conveniva.
I nobili prediligevano un netto distacco coi poveri lavoratori. Non disperdere il sangue era fondamentale e da secoli i sovrani sposavano le loro cugine o persino sorelle.
Qhapaq e Coya erano appunto cugini, ma sulla regina circolavano dicerie, che volevano fosse una trovatella di umili origini, poi adottata.
In ogni caso, quel giorno, la famiglia reale sarebbe stata celebrata sia dai nobili che dal popolo, coinvolgendo l’intera città.
I sovrani si mostravano raramente al volgo, proprio per preservare il distacco, e questo rendeva la gente ancor più curiosa.
Inti e i suoi fratelli si unirono alla folla che camminava verso l’alto tempio. Loro padre, con grande sconforto, era dovuto rimanere a casa, e sua moglie, per non lasciarlo solo, aveva fatto altrettanto.
Kon non sembrava entusiasta, avrebbe preferito approfittare della festa per riposare un giorno interno, ma Pacha lo aveva obbligato a partecipare.
Inti e Coyllur lo persero di vista rapidamente, era facile fra tanta gente. Loro, infatti, si tenevano per mano.
Le persone si accalcavano, felicitanti, attendendo che i sovrani si mostrassero. La musica popolare riecheggiava fra i monti, alimentando l’entusiasmo.
Gli appartenenti alle alte caste si trovavano ai piedi del tempio: un imponente edificio piramidale, fatto di levigati gradoni in pietra. La cima era d’oro splendente e lì si ergeva la tavola della profezia.
Nobili e sacerdoti sfoggiavano abiti piumati e dai colori forti, adornati da ricchi gioielli. Per la povera gente era uno spettacolo.
Coyllur si guardava attorno, affascinata, indicando a Inti tutto quel che la lasciava a bocca aperta.
Si percepì un vibrazione intensa e gli strumenti suonarono con forza. La famiglia reale stava arrivando.
Le grida si levarono alte, unendosi ai ritmi accelerati. Frenetici danzatori precedettero i sovrani, mentre candidi giovani lanciavano petali tutt’attorno.
Un lettiga d’oro, impreziosita da bassorilievi, uscì dal tempio.
La famiglia reale non doveva muovere un passo. Fedeli e robusti servitori se ne facevano carico.
I sovrani sfavillavano. Portavano collane, anelli, bracciali e orecchini d’oro adornati da gemme; abiti di lana fine con trame maestose e regali corone ornate delle piume dei volatili più rari. Nessuno reggeva il confronto.
Il popolo giubilava. Di fronte alla bellezza dei figli degli dei svanivano le fatiche e il dissenso.
Inti e Coyllur cercarono di avvicinarsi, come tanti, la gente si parava la vista continuamente. Quando ormai erano a un passo da loro, Inti si lasciò distrarre: una seconda lettiga stava uscendo dal tempio.
«Chi è?» domandò alla sorella, esterrefatto.
Il frastuono era tale che fu costretto a ripeté la domanda. Coyllur gli rispose, ma questa volta fu lui a non sentire.
La lettiga avanzava. Portava una persona sola, adornata da un abito bianco e una corona di petali.
«È la figlia dei sovrani!»
Le parole di Coyllur erano finalmente chiare.
«La principessa Quilla! Ha raggiunto la maggiore età e si mostra a noi per la prima volta. Non lo sapevi?»
Inti scorse le iridi argentate.
«Non è possibile…»

(8) La festa si concluse al calar del tramonto.
Inti e Coyllur rientrarono a casa, Kon lo aveva fatto molto prima e stava già dormendo.
Il padre volle conoscere ogni dettaglio e la severità venne meno, grazie alla curiosità. Poi andarono tutti a letto. 
«Ti piace la principessa Quilla, vero?» la vocina saccente di Coyllur svegliò Inti.
«Che razza di domanda è?» si lamentò.
«L’hai fissata tutto il tempo, incantato. Ignorando un sacco delle mie domande.»
A Inti venne da ridere.
«Ti ignoro sempre.» ribatté.
«Ma non mentre fissi una principessa.»
«Ora riposiamo, dai.» provò a tagliar corto, girandosi dall’altra parte.
«Pensi di sognarla?»
«Oh… lasciami in pace!»
Coyllur ridacchiò acutamente, cercando di soffocare il rumore, ma senza riuscirvi.
Inti scosse la testa, rassegnato; poi si tirò su.
Le raccontò del loro incontro, convinto che si acquietasse; ma quella, al contrario, cominciò a riempirlo di domande.
Continuarono a parlare finché i lamenti di Kon non li costrinsero a smettere.

(9) La mattina seguente, Inti, doveva svolgere un lavoro importante: assieme ad altri giovani avrebbe portato delle merci in un villaggio vicino, uno dei tanti che sottostavano al loro sovrano.
I beni appartenevano a un nobile per il quale aveva lavorato. Inti, dimostrandosi pacato, era riuscito a farsi scegliere anche per questo compito.  
Le alte caste, però, non si fidavano mai troppo e per questo la spedizione sarebbe stata guidata da un uomo di fiducia, che avrebbe gestito le trattative. A Inti e gli altri spettava semplicemente un lavoro da soma.
Erano una dozzina, con lama al seguito. Il viaggio era principalmente in discesa, lungo percorsi stretti e impervi, ricavati nei secoli. Per fortuna avevano degli ottimi polmoni.
Solamente il paesaggio rendeva il cammino interessante. I lavoratori non spezzavano mai il silenzio, un privilegio che spettava al capo della spedizione, per strillare ordini.
La prima breve sosta arrivò dopo ore, vicino a un lungo ponte di corda.
Era un ponte molto stabile, sebbene un occhio inesperto l’avrebbe considerato spaventosamente traballante.
Inti osservava la sponda opposta, occultata dalla nebbia. Non erano ancora arrivati degli ordini e si godeva il momento.
Dal cielo esplosero i fulmini di Apocatequil.
Fu in quell’istante che, dalla nebbia, eruppe un nugolo di frecce.
Inti ebbe solamente il tempo di buttarsi a terra.
Gli uomini della spedizione vennero trapassati brutalmente dai dardi. Coloro che non erano morti sul colpo si lamentavano dolorosamente.
Inti volse lo sguardo alla nebbia, terrorizzato, cogliendo il contorno di uomini sconosciuti e dei loro archi. Non capiva quanti fossero, né che aspetto avessero, ma riportarono alla sua mente il terribile incubo.
Uno degli uomini si avvicinò al ponte di corda, mostrandosi involontariamente: aveva una carnagione olivastra, il naso schiacciato ed era privo di capelli.
Si allisciò i baffi scuri e sottili, osservando il massacro.
Il suo corpo era protetto da un abito di opaco metallo e portava al fianco una lunga lama ricurva. Il popolo di Inti non era in grado di forgiare niente del genere.
Lo straniero strinse gli occhi neri, con un’espressione di disprezzo e arroganza; cercava di capire se vi fossero superstiti.
Inti era immobile. Avrebbero attraversato il ponte, prima o poi, e quella sarebbe stata la sua fine.
Fissò il corpo di una delle guardie che li accompagnavano e chiamò a sé il coraggio. C’era una sola cosa che poteva fare.
Corse.
Sottrasse al cadavere il coltello tumi, mentre l’uomo sull’altra sponda si accorgeva di lui. Con la lama, Inti, cominciò a recidere le corde del ponte.
Lo straniero gridò furiosamente in una lingua sconosciuta.
Il ragazzo sentì gli archi tendersi, ma continuò a recidere le corde disperatamente.
Il ponte cedette.
Il frastuono fu assordante, le corde frustavano l’aria mentre frammenti di legno volavano ai quattro venti.
Fra le grida si udì un sibilo.
Inti fu colpito a una spalla, mentre un’altra freccia gli graffiava la gamba.
Urlò, spalancando gli occhi. Solamente l’istinto di sopravvivenza gli consentì di soffocare il dolore e riprendere a correre, ansimando, soffrendo; senza voltarsi, senza pensare.

(10) Fu ritrovato ai piedi della città, poco prima del calar della notte. Il dolore lo aveva fatto svenire.
La famiglia era disperata, nessuno sapeva cosa fosse accaduto, ma le guardie del re Qhapaq portarono Inti lontano dai suoi cari, senza dare spiegazioni.
I fulmini piovevano impetuosamente.

(11) Si risvegliò in un letto comodo.
Aprì gli occhi a fatica, sentendo subito una fitta alla spalla. Provò istintivamente a toccarla, ma una mano bloccò la sua.
Una ragazza con un candido abito bianco l’osservava coi suoi occhi argentei.

(12) Avevano fatto il possibile per la sua ferita, ora cosparsa di unguenti che odoravano in modo strano.
La principessa Quilla non era la sola a guardarlo, c’erano diversi uomini: sacerdoti e nobili. In lontananza, Inti, vide persino re Qhapaq.
Gli venero poste tante, troppe domande, non sempre in maniera gentile. Il ragazzo provò a spiegarsi: parlò del ponte, della nebbia, dell’agguato, dello straniero e la sua lama. Ammise di aver fatto crollare il ponte per non essere seguito.
Tutti lo ascoltarono con crescente stupore.
«E vorreste credere a questo miserabile?» domandò un nobile.
«Aveva una freccia nella carne e abbiamo ricevuto conferma che facesse parte della spedizione.» ribatté un sacerdote.
«Ma questi uomini di cui parla, chi sono?» chiese un altro nobile.
«Un esercito per invaderci?»
L’ipotesi di un secondo sacerdote fu esposta tremolando.
«Ah! Chi potrebbe osare invaderci?» rise il primo nobile.
«Qualcuno con armi affilate.» replicò il primo sacerdote.
«Se fossero tanto folli Apocatequil li punirà.»
Il secondo nobile sembrava davvero convinto.
«Ma hanno colpito durante il tuono.» gemé il secondo sacerdote «Non lo temono!»
«Non lo rispettano!» precisò il primo nobile, sprezzante.
«Sono superbi!» gli diede corda il secondo.
Re Qhapaq scosse la testa.
«Non hanno paura dei fulmini.» considerò inquieto.
«Ne avranno del fulmine rosso.» 
Il primo sacerdote intendeva rincuorarlo, ma Qhapaq ebbe un sussulto.

(13) Le autorità si mobilitarono: coloro che erano in grado di combattere vennero chiamati alle armi. Un vero e proprio evento, per un società che non era più abituata a essere sfidata.
Gli uomini saggi s’interrogavano sul da farsi e molti ritenevano che Apocatequil si sarebbe occupato di tutto. Il popolo pensava lo stesso.

(14) Inti, in quei giorni, venne accudito a palazzo per volere della principessa Quilla, che lo andò a trovare spesso.
Fu lui a chiederle:
«Perché stai facendo tutto questo?»
La principessa non gli rispose subito.
«Perché tu hai salvato me. Volevo ricambiare»
Il ragazzo non parve comprendere.
«Ero convinto di averti spaventata, non di averti salvato.» 
«Non è stata colpa tua, sono stata incauta. Ma ero impaurita e quindi arrabbiata.» chiarì lei, ostentando criterio. 
Lui, tuttavia, sembrava ancora dubbioso.
«Hai avuto il merito di dimostrare prontezza, allora come al ponte. Sono in debito con te. Siamo, in debito con te.»
Inti si sentiva stupido. Si era guadagnato un debito con una principessa e non se n’era nemmeno accorto? Era così ingenuo?
«Che facevi lì, quella notte?» le domandò, ignorando tutto il resto.
La principessa sussultò, parve persino indispettirsi.
«Io… non avrei dovuto essere là, hai ragione. Ti prego di non dire a nessuno del nostro incontro.»
Adesso custodiva anche i segreti di una principessa, stava facendo progressi.
«Quindi perché eri là?» insistette, divertito.
Lei si avvicinò tantissimo e Inti ammutolì.
«Per essere libera.» sussurrò con un mezzo sorriso.
Poi si allontanò, quasi beffardamente. Il ragazzo non riuscì a fare a meno di sorridere a sua volta.
«Se vuoi, quando sarà tutto finito, ti farò compagnia, lì, sull’abisso.»
Si sentì uno stupido anche per averlo solamente pensato.
«Per proteggermi se dovessi rischiare di cadere ancora?» gli domandò Quilla.
Inti, involontariamente, si sentì felice.
«Sì, per proteggerti.»

(15) All’alba, gli stranieri che non temevano i fulmini, arrivarono.
Molti pensavano fossero tornati indietro o che Apocatequil li avesse folgorati tutti; ma così non era.
Centinaia di loro, con spade affilate, invasero la città.
L’uomo scorto da Inti era il loro condottiero e si chiamava Supay. Assieme ai suoi guerrieri massacrò l’esercito di Qhapaq.
La città venne messa al sacco, fra gli omicidi e le nefandezze. Il re fu deposto e imprigionato da Supay, assieme alla sua famiglia.
Inti finì in cella coi nobili del palazzo. Con amara ironia venne confuso per uno di loro. Il destino, in ogni caso, era uguale per tutti: servire o morire.

(16) I giorni seguenti furono carichi di notizie terribili, portate da coloro che gli stranieri adoperavano come servi.
Inti scoprì che Kon era morto combattendo per l’esercito reale. Pianse fino a non avere più lacrime.
La sua famiglia era distrutta. Suo padre aveva perso la fede e la sua condizione era peggiorata, portandolo a cadere vittima della febbre e un delirio costante. Il regime di Supay non consentiva alla moglie di aiutarlo e sua sorella era stata fustigata per aver provato a uscire dalla città, alla ricerca di erbe medicinali.
Si diceva che, il re, avesse invocato la maledizione del fulmine rosso su Supay e che questi avesse riso sadicamente. Egli aveva combattuto nella tempesta fin dalla nascita, sfidando il fulmine in battaglia e sconfiggendolo. I loro dei erano morti.     
Lo straniero voleva che Qhapaq si piegasse a lui. Aveva assassinato la regina Coya per costringerlo e ora minacciava sua figlia.
Tutti dicevano che il re avrebbe ceduto e che il regno era giunto al termine.
I fulmini non cadevano da giorni.

(17) Inti era seduto nella cella, circondato da uomini che non erano più tali. Erano vermi, cadaveri, bestie o squilibrati.
Li nutrivano poco e bisognava lottare, per avere abbastanza.
Inti era giovane e abituato a una vita dura, ma avrebbe cominciato presto a patire quanto gli altri.
I suoi sensi erano ovattati e non badò a uno strano tintinnio metallico. Seguì un grido strozzato e qualcuno sfondò la porta che conduceva alla loro cella, qualcosa che nessuno poteva ignorare.
Inti sbarrò gli occhi. Erano un gruppo di persone, soldati del suo popolo.
Che stava accadendo?
Qualcuno si avvicinò a forzare la cella.
«Kon?»
Inti non riusciva a credere ai suoi occhi.
Il fratello alzò lo sguardo e gli rivolse un mezzo sorriso, una cosa che non gli vedeva fare da molto tempo.
«Mi avevano detto che eri morto, che tutti quelli che hanno combattuto contro Supay sono morti!»
Kon scosse il capo, il meccanismo della porta cedette.
«Supay diffonde menzogne, fratello mio, per distruggere le vostre speranze.»
Gli uomini che non erano più tali si rianimarono, uscendo dalla cella come saette.
«Non siamo tanto numerosi da poter distruggere il suo esercito, non lo siamo mai stati.» riprese Kon «Ma conosciamo meglio la nostra terra. Siamo qui per liberare il re e per uccidere Supay. Ci aiuterai, fratello?»
Inti si limitò ad annuire.

(18) I ribelli liberarono tutti i prigionieri. Alcuni si univano alla battaglia, altri pensavano a salvar la pelle.
Avevano rubato le lame affilate ai nemici uccisi e avevano scoperto quanto fossero mortali.
Kon, Inti e tutti loro, correvano verso la stanza del re: l’alloggio di Supay. 
In quella sala, il capo degli stranieri, all’oscuro dell’accaduto, aveva fatto condurre ai suoi piedi e coi polsi legati re Qhapaq e sua figlia Quilla.
I suoi occhi a fessura li osservavano torvamente.
«Oggi cederai, Qhapaq. Non ho più voglia di giocare con te.»
Le torture subite dal sovrano erano evidenti. 
«Cos’altro vuoi, Supay? Mi chiedi i segreti dei miei alleati, di svendere la mia gente. E per cosa? Per morire?»
Qhapaq era affaticato, ma cercava di tenere il capo ancora alto.
«Puoi risparmiare al tuo popolo inutili sofferenze. Rivelargli le verità che gli celi. Accetta la morte dei vostri dei! La guerra potrebbe durare ancora a lungo, se gli eserciti saranno pronti a sacrificarsi per Apocatequil. Voglio che la tua voce annienti la loro speranza. Che razza di sovrano sei, se mi costringi a massacrarli? A farli annegare nel loro stesso sangue?»
Qhapaq ebbe un fremito.
«Non conta niente la morte della tua sposa? Vuoi sentir gridare così un intero popolo? Essere ricordato come un codardo? Dammi ciò che chiedo e farò che la storia ti ricordi come un sovrano illuminato. Il mezzo sangue cha ha ceduto il trono a un vero dio. L’era di Apocatequil finirà, e sarà l’era di Supay, che non teme il fulmine!»
Qhapaq chinò il capo, con gli occhi bagnati dalle lacrime per Coya.
«La tua superbia sarà la tua condanna…» sussurrò.
Supay afferrò l’oggetto più vicino, frantumandolo a terra in uno scoppio d’ira.
«Sono stanco di sentire queste parole!» sbottò «La tua mente è vuota! La tua comprensione è nulla! Mi costringi a distruggervi! Mi costringi a spezzare le vostre ossa fino a farvi piegare!»
Supay si avvicinò al sovrano con veemenza, poi afferrò il collo di Quilla, sollevandola da terra.
«No!» gridò Qhapaq, disperato.
«Sei tu che mi obblighi a farlo!»
Gli occhi di Supay era iniettati di sangue.
«Quando sarà morta ti resterà solamente la tua vita, da spartire; assieme al risentimento...»
Supay si avvicinò alla terrazza del palazzo, tenendo Quilla sospesa sull’abisso. Qhapaq gridava e supplicava il nemico di fermarsi, ma questi aveva smesso di ascoltarlo.
I ribelli sfondarono le porte della sala, riversandovici come lupi affamati. Le guardie di Supay caddero infilzate sotto i colpi del popolo oppresso.
Il condottiero estero sbarrò gli occhi. Era preda d’intenzioni indecifrabili.
Lasciò cadere Quilla.
L’urlo di Inti fece vibrare la sala. Il ragazzo caricò Supay a testa bassa, impattandovi contro.
Il robusto condottiero perse l’equilibrio, seguendo la principessa nell’abisso.
Fu la mano di Kon a impedire al fratello di cadere a sua volta. Lo salvò con la stessa prontezza che aveva avuto lui quella la notte, salvando Quilla.
Inti si strinse al petto di Kon, fra le lacrime e i singhiozzi. Incapace di accettare quel che era appena successo.
Qhapaq si era alzato in piedi e osservava il punto nel quale era caduta sua figlia.
Le lacrime rigavano le sue guance e le labbra si mossero per recitare le parole della remota profezia:
«Le terre tuoneranno per i fulmini, i figli di Apocatequil. Il timore renderà gli uomini umili, ed essi avranno la pace. La condanna è il destino, per chi si macchierà di superbia, fino a sfidare gli dei. L’insolenza sarà distrutta. Il segno dal cielo, alla caduta del fulmine rosso.»
I fulmini esplosero accecanti.

(19) Si ritiene sia leggenda, la fine di questa storia. Ciò che è vero e ciò che è falso, a nessuno è dato sapere.
Ma si dice che i guerrieri di Supay fuggirono da quelle terre, quando seppero che il loro signore era stato arso vivo da un fulmine rosso.
Si parla del volere degli dei, della salvezza di un popolo grazie al dio patrono Apocatequil, e la gente si sente protetta, pur temendo il suo tuono, nella terra del fulmine rosso.
C’è anche chi dice che le cose cambiarono, da allora; che il popolo e i nobili si avvicinarono, dopo che il sangue di entrambi era stato versato.
Alcuni sostengono che la figlia del sovrano ascese, come una pura vergine, al regno della luna, e c’è chi pensa che, il valoroso guerriero Inti, ascese al regno del sole. Alcuni li adorano ancora oggi, come dei, amanti, separati dalla notte e il giorno e dalla altrui crudeltà.
Si vocifera che la figlia del sovrano, dalla nascita, avesse una voglia sulla spalla. Un presagio: una piccola saetta tinta di rosso.
I sacerdoti pensavano che fosse un simbolo, il segno di un destino.
Si dice che l’ultima cosa che vide Supay, prima di morire, fu la voglia sulla spalla della ragazza.


IL SEGNO DAL CIELO
ALLA CADUTA DEL FULMINE ROSSO


Fine

8 set 2016

Sentea - Parte 2 - Saleria&Covia

Dopo una lunga pausa estiva continua l'esperimento fantasy del blog e il viaggio di Edrian Avamhaeir, La penna amaranto. 
Ricordo nuovamente che i frammenti del racconto servono a presentare l'ambientazione e questo potrebbe renderli più pesanti delle storie che scriverò in seguito. A fine testo troverete un glossario che vi aiuti a comprendere meglio gli aspetti di questo mondo che il narratore dà per scontati (i termini sono evidenziati da un colore diverso, vi basta cliccarli). 
Qui potete trovare la Prefazione e la Parte 1 del viaggio.
Vi lascio alla lettura:

I Tre Equabilium


Sentea
 Parte 2 - Saleria&Covia

Raggiunsi la costa saleriana il faldir della quarta quintana di Orithor del 1073. Per quattordici giorni il mare mi aveva cullato, consentendo al sole e la brezza di baciarmi.
Maelstrom non fu sempre così cortese.
Il mio timore era quello d’imbattermi nei pirati dell’arcipelago di Kar, in qualche sbandato dell’isola del Lupo di Ferro o nei temibili figli dei draghi di Ramako, ma niente di tutto questo avvenne. Il porto di Demha, la più ricca città marittima della Saleria, mi confermò che ero al sicuro, finalmente tra le braccia dei cavalieri dell’est.    
Chiunque conosca anche poco della storia di questa nazione, sa che ella viene considerata la vera patria della virtù da molti umani. Non c’è da stupirsi che altre terre e specie non concordino affatto.   
La mia curiosità più grande, lo confesso, era scoprire chi avesse ragione fra i detrattori e gli ammiratori.
Con la classica banalità dei saggi si potrebbe dire che “la verità sta nel mezzo”, ma preferisco rivelarvi le sfumature, così che possiate farvi la vostra idea.
La Saleria emerse durante l’Era delle rivolte oscure, divorando dall’interno l’Impero di Cortaliia. Due ere prima, gli antichi “sartheani”, erano stati accolti e inglobati, divenendo un’essenziale forza militare durante le guerre dei Grandi Regni. I cortaliiani, allora, non si aspettavano di certo che sarebbero divenuti la causa prima della loro caduta.
La storia, qui, si confonde in base alla provenienza di chi racconta: c’è chi sostiene che i futuri saleriani, sebbene vitali, venissero trattati come schiavi, e chi sostiene che, sapendo di essere vitali, non tollerassero più di sottostare alle gerarchie fàsiel. Quel che è certo e che vi furono atroci battaglie, e che i saleriani trionfarono talmente, da provocare la storica migrazione alata che contribuì alla nascita dell’odierna Gran Falia.
Per la Saleria fu un inizio glorioso, leggendario. Le rivolte oscure, tuttavia, non avevano spezzato solamente l’Impero di Cortaliia. I rasiiani, combattenti nordici scissisi dal Grande Regno del Nelom, tentarono presto di razziare le loro nuove terre. Ciò nonostante, il conflitto si limitò a confermare la supremazia degli straordinari guerrieri a cavallo saleriani. L’avanzata rasiiana venne arrestata in un lampo e i vincitori ne approfittarono per nobilitare la propria élite militare: copiando antiche cerimonie elfiche, diedero origine alla cavalleria dell’est.      
La Saleria pareva inarrestabile e si convinse realmente di esserlo, combattendo i vicini e facendo pesare sempre più la propria influenza. Fu così che, specialmente al sud, i saleriani divennero persino abili politici.
La Rasiia, nel frattempo, era in crisi. Dai Monti del Nord orde dei loro cugini la invasero, costringendola a difendersi su due fronti. Alla Saleria sarebbe bastato volerlo, per condannarla a sparire. Ma è in questi casi che le incognite della storia ci insegnano delle interessanti lezioni.
La Saleria settentrionale, rimasta esclusa dai nuovi interessi di potere del meridione, si era concentrata sulla difesa del confine, sviluppando, a differenza delle aspettative, un certo rispetto per i propri avversari. Questi, sebbene sconfitti, si erano dimostrati sagaci, in grado di adattarsi e apprendere quel che il nemico aveva da insegnargli. Una qualità che non sembrava appartenere ai cugini che rischiavano di sottometterli. La Saleria settentrionale decise di non seguire il detto per il quale “il nemico del mio nemico è mio amico” e adottò o persino inventò il più contorto “il nemico del mio nemico rende il mio nemico amico”.
Non fu un processo immediato, ovviamente, ma fra saleriani e rasiiani nacque un interesse che placò il conflitto, seguito da una collaborazione crescente, talmente funzionale, da divenire quasi simbiotica.
I cavalieri e i guerrieri del nord, insegnandosi i reciproci trucchi, diedero vita a un connubio che trasudava pura potenza.
Questo non piacque affatto ai saleriani del sud. Dalla capitale Mey-Rex i sovrani condannarono più volte la collaborazione fra i rasiiani e i saleriani del nord. Arrivarono persino a dipingerla come un tradimento delle proprie origini. Ma i tentativi di spronare i fratelli a rigettare la nuova alleanza, ottennero esclusivamente il risultato opposto: saldare il loro legame.
Il saleriani del nord trovavano ridicole le accuse al proprio onore. Ritenevano, infatti, i fratelli del sud sempre più corrotti e lontani da quell’ideale guerriero che le lotte coi rasiiani avevano forgiato.
Attriti crescenti generarono concetti e schieramenti spontaneamente: per il nord, i rasiiani erano più onorevoli dei salieriani del sud. Per il sud, i saleriani del nord erano traditori in combutta coi barbari. Due semplici idee che diedero vita alle nazioni gemelle dell’oggi: la Saleria del sud, conosciuta semplicemente come Saleria, e la Saleria del nord, unita a parte della Rasiia, conosciuta come Covia.
Al mio arrivo a Demha avrei scoperto ben più del passato di queste terre.
Attualmente, sono in guerra aperta.
Impiegai poco a comprendere che la Saleria è una nazione ricca e orgogliosa. Non è difficile ammirare affascinati i suoi uomini d’arme, appartenenti a uno degli innumerevoli ordini cavallereschi che si distinguono di regione in regione, di città in città. Stendardi e mantelli colorati paiono sventolare ovunque, generando anche fra la povera gente un sentimento d’appartenenza estremamente forte.
Sebbene tutto questo catturi lo sguardo e induca meraviglia, dietro lo splendore emergono facilmente i primi problemi. Agognerei che nella mia Theria emergesse un simile spirito nazionalistico, farei tuttavia a meno dell’arrivismo cieco che appartiene, assieme a esso, a troppi saleriani. Tutti qui vogliono una Saleria unita, questo è innegabile, ma esclusivamente sotto il proprio stendardo. È così che un valore unificante porta a scindere con disarmante efficienza.
Si penserebbe che il conflitto con la Covia spinga le casate nobiliari a collaborare, sotto un re forte figlio di una nazione guerriera. Ebbene, non so dirvi onestamente chi sia il legittimo re di questa terra.
I nobili dei centri nevralgici dispongono di somme, eserciti e un popolo fedele degni della più sventurata anarchia feudale. E non pare una situazione destinata a cambiare.
Parlai con cortigiani e umili di Demha, Calasar, Mey-Hock, Gontar, Lombal, Gisela, Faralis e Traoba. Nessuno di essi sembrava meno che convinto che il proprio signore verrà un giorno incoronato re di Salaria, per poi sconfiggere la Covia traditrice e riformare l’antico regno, fino a competere coi grandi della Sentea e affermare il dominio degli umani su Geo. Francamente, un delirio. 
Azzardo, secondo ciò che vidi in queste terre, che una Saleria unita realmente sarebbe più ricca, forte e persino scaltra della Covia; ma non questa Saleria, fatta di ostentazioni, pettegolezzi e intrighi utili solamente ai cantastorie.
Ritengo che il futuro della nazione ruoti attorni agli unici due centri che combattono attivamente coi coviani: Mey-Hock e Calasar. Mey-Rex cadde in rovina in seguito alla scissione della Saleria settentrionale, dando il là a questo disordine, e non sembra più in grado, tanto meno in questi tempi, di riottenere alcuna autorevolezza.
Mey-Hock, sotto l’omonima casata degli Hock, è una straordinaria città fortezza protetta da tre cinte murarie di crescente solidità. Ha per certi versi rubato l’aura di influenza di Mey-Rex, senza colpo ferire. I meyhockesi si ritengono i più duri dei saleriani e anche i più nobili, hanno un sistema gerarchico estremamente rigido, ma funzionale, e la loro economia è strettamente vincolata all’attività bellica. Una Saleria sotto il loro controllo verrebbe certamente governata col pugno di ferro, ma rievocherebbe meglio di ogni altro potere l’antico spirito dei sartheani, cumulandogli l’affinata spietatezza politica degli Hock.                
Calasar, sotto la casata dei Martren, è l’astro nascente: la più grande metropoli saleriana, centro di cultura e dell’economia nazionale, a tutti gli effetti la nuova capitale. Sebbene per molti rappresenti anche il cuore della corruzione, e questo la renda invisa alla maggior parte dei poteri saleriani e coviani, Calasar e i Martren hanno a disposizione le armi più forti, nonché le più subdole, per attrarre i consensi degli umili. Sarebbero degli scontati vincitori, se non fosse per l’ottuso patriottismo regionale che predomina ancora ovunque.                
La Saleria dunque è una terra di certezze e incertezze contrastanti, dove pare che la propria volontà, le proprie opinioni, si scontrino fin troppo spesso con la realtà, riuscendo però, caparbiamente, a strapparle qualcosa e lasciando che siano gli altri a subirne le conseguenze, se il disio era superficiale ed egoista. Nutro il timore che sia davvero questa la sua forza. Una forza che mi spaventa, poiché racchiude le imperfezioni che altre specie, subendoci, ci criticano. Come sostenitore dell’Unione le rifuggo, ma questa terra mi costrinse a confrontarmici.
In Saleria, pur abitando una moltitudine di specie, la loro mescolanza è scoraggiata, la supremazia umana evidente. In molti luoghi, per legge, ho assistito a l’esclusione dei diversi da cariche di rilievo, financo le specie ritenute universalmente civili. E qui è d’obbligo che io non mi sottragga dal condannare la più grave colpa saleriana: la schiavitù fàsiel. Dai tempi della caduta dell’Impero di Cortaliia, infatti, coloro che tutt’ora vengono definiti con disprezzo i vecchi “padroni”, subiscono quello che per i saleriani non è altro che un giusto contrappasso. Fra sevizie di ogni genere, la peggiore è la tortura definita “garanzia”, praticata sui giovani fàsiel per assicurarsi che non sviluppino le ali. Un altro mezzo per impedirgli di fuggire dai propri aguzzini.
L’orribile crudeltà di queste pratiche, che mi condusse al pianto in più di un’occasione, varia di regione in regione, e sebbene siano in pochi a compiere timidi passi lontano dalla barbarie, posso garantire che la tradizione meyhockese è in tal senso la più feroce.      
Superai il confine fra Covia e Saleria durante una breve tregua dal conflitto, precisamente il faldir della terza quintana di Irithor dello stesso anno. I cavalieri di Nelario mi guardarono di traverso finché poterono.
Mi pentii presto di aver scelto la stagione di Whirlcan per muovermi verso nord, ma pensavo che solamente le terre del Nelom fossero tanto fredde. Esse, a suo tempo, si rivelarono peggiori della Covia e di ogni possibile previsione. 
Ormai mi ero guadagnato, mio malgrado, il soprannome di “penna amaranto”. Il saleriani amano gli pseudonimi. Ma non aggiungerò altro su questa storia.
Viaggiai verso Lonida, patria dei destrieri di Sevett, i migliori di tutta la Covia, ai quali i saleriani contrappongono, dalle terre di Alehanter, gli stalloni del sud. Non m’intendo abbastanza di cavalli per rivelarvi chi abbia ragione. L’unica certezza è che oggi, i cavalieri coviani, sono ritenuti inarrestabili, tanto da potersi vantare del detto: “tutti i ranghi si sfaldano dinnanzi alla carica dei cavalieri di Sevett”. Un saleriano indispettito aggiungerebbe “tranne che i nostri” e probabilmente avrebbe ragione. Sebbene la guerra fra Saleria e Covia proceda con fortune alterne, la millantata superiorità delle truppe coviane, frutto della passata mescolanza saleriano-rasiiana, non ha mai consentito il predominio sul campo. Il fatto che la Covia abbia neutralizzato la Rasiia, e si sia guadagnata fama continentale battagliando al fianco del Saumor, non basta. Non è possibile sminuire imprese coviane leggendarie, come la mandata in rotta di un reggimento di cavalleria ylthiun, ma questi eventi straordinari obbligano a riflettere, persino più a fondo, su cosa impedisca alla rigorosa Covia di avere la meglio sull’anarchica Saleria.
L’idea che mi feci durante il mio viaggio, capace di incollerire il più freddo coviano, è che questa terra, al di là di ogni sforzo, pare inevitabilmente gregaria della propria sorella maggiore.
Si tratta di una questione al contempo politica e culturale.
Quel che accade in Saleria è determinante in Covia, ma non è garantito il contrario. La Saleria la considera una propria estensione, mentre la Covia si limita a mire di contenimento, senza progettare un’invasione su larga scala.
Forse, in fin dei conti, è proprio la mancanza dell’odiosa ambizione saleriana a penalizzarla.
Visitai con grande interesse la capitale Exalt: una città operosa, sorta come punto d’incontro fra le due culture madre; con un pizzico di arte accattivante, specialmente nell’architettura, ma sostanzialmente priva di anima.
Temo sia questo, la Covia: grande applicazione, poca anima.
La stessa guerra pare un disperato grido d’emancipazione che fallisce a ogni caduto. 
La Saleria può disinteressarsi della Covia, sfruttandola quando le torna comodo. La Covia, invece, non pare in grado di farne a meno della Saleria, neanche come nemico.
Di per sé, i coviani sono profondamente diversi dai saleriani, probabilmente poiché le ragioni della scissione contribuirono a formare una nobiltà rigida ed esigente. Il clima meno mite e un’economia organizzata, ma poco vivace, hanno fatto il resto.
Quel che conta accade a sud e la Covia lo sa, vorrebbe limitarsi a gestire i propri equilibri interni, ma la Saleria non glielo consente. Questo gioco potrebbe andare avanti in eterno e il numero dei caduti, nel mentre, aumenta.
Su Geo, non esiste una guerra fra umani più sanguinolenta, e parliamo delle stesse terre che, per molti, sarebbero le nostre più gloriose rappresentati. Questo, nell’amarezza, mi causa il riso.
Non pretendo che gli eredi dei responsabili della caduta di un impero, che ho studiato essere illuminato, contribuiscano al rifondarsi dell’Unione. Sono un’idealista appassionato, non un ingenuo. Ma desidero almeno che questa follia fratricida, anche per coloro che non credono nella collaborazione fra specie, abbia termine al più presto. I saleriani e coviani, così, avranno modo di studiare più a fondo le idee celate nei loro potenti stati. Non le barbarie, ma le virtù; che non gli mancano.                          
Aspettai l’arrivo della bella stagione nell’innevata Imal, città ostile all’odierna Rasiia quanto il resto della Covia alla Saleria. Era passato più di un anno, dalla mia partenza da Latheryan, e mi sembrava di aver già visto tanto da poterne scrivere per una vita. Tuttavia, era solamente l’inizio del mio viaggio.
Mi aspettava il gelido Nelom, assieme ai Monti del Nord.
Forse, avrei incontrato le leggendarie valchirie della Veliia e udito racconti sull’Unione per bocca di chi, quegli ideali, li incarna. 


Fine Parte 2


Glossario
Faldir: terzo giorno della quintana.
Quintana: su Geo i mesi sono divisi in quintane anziché settimane. Ogni mese dura venticinque giorni, suddivisi in cinque quintane. I mesi sono dodici e l'anno dura precisamente trecento giorni.
Orithor: terzo mese dell'anno, equivalente più o meno a Giugno. L'anno, infatti, inizia ad Aprile (Lodathor).
Maelstrom: dea elementale dell'acqua. Durante un viaggio in mare, nel bene o nel male, ci si affida a lei.
Arcipelago di Kar: terra di pirateria che beneficia della posizione fra Sentea e Ivhen. Figlia di Havar, la nazione piratesca per antonomasia.
Isola del Lupo di Ferro: terra ingrata abitata da marinai duri e ingrati. Un numero ridotto di valchirie rinnegate, che si definiscono Lupi o Corvi di Ferro, detengono il vero potere. 
Ramako: terra isolazionista governata da un circolo di antichi dragoni puri e abitata dai loro innumerevoli figli mezzosangue. 
Era delle rivolte oscure: antecedente all'Era degli esodi. Chiamata anche terza Era del caos. Caratterizzata dalla caduta di Imperi e Grandi Regni, rivolte e atti sacrileghi. Ha condotto al terzo Equabilium.
Guerre dei Grandi Regni: sottinteso "Era delle guerre dei Grandi Regni". Antecedente all'Era delle rivolte oscure. Caratterizzata da aspri conflitti fra gli stati storici e la conseguente nascita di Imperi.
Gran Falia: Nazione di riconosciuta predominanza fàsiel. Patria dell'innovazione. Considerata la terza potenza della Sentea. Verrà visitata da Edrian.
Grande Regno del Nelom: antica realtà politica che si è sgretolata poco prima del terzo Equabilium. Reggeva le terre degli attuali Krahiil, Veliia, Tronr, Vonm, Monti del Nord, Rasiia, Wotiir, Everen e Tònal. Si trattava di un matriarcato delle valchirie. 
Monti del Nord: Nazione che nell'immaginario collettivo corrisponde alla terra dei barbari del nord. Verra visitata da Edrian.
Rasiia: Anche dopo la nascita della Covia la Rasiia continuò a esistere come stato a parte. La Rasiia attuale è abitata dagli eredi di coloro che non si unirono ai saleriani del nord e furono sottomessi dai cugini dei Monti del Nord.
Irithor: nono mese dell'anno, equivalente più o meno a Dicembre.
Cavalieri di Nelario: cavalieri saleriani al confine con la Covia. Tra i più devoti alla causa.
Stagione di Whirlcan: un altro nome dell'Inverno. Le stagioni vengono associate a uno dei quattro dei elementali. Whirlcan è il dio dell'aria.
Nelom: termine convenzionale per riferirsi all'insieme di terre del nord della Sentea (essenzialmente una striscia che va dallo Svehn alla Rasiia). Il vocabolo sussiste malgrado non vi sia una cultura comune (specie fra est e ovest) ed è un sinonimo di gelo spietato. 
Saumor: Nazione di riconosciuta predominanza ontur. Dotata dell'economia più solida di Geo. Considerata una delle due super potenze della Sentea assieme all'Impero Ylthiun. Verrà visitata da Edrian.
Cavalleria ylthiun: Considerata la cavalleria per antonomasia. Messa in discussione della cavalleria coviana.
Valchirie: una delle specie che popolano Geo, estremamente rispettata fra quelle che si ritengono civili. Caratterizzate da ali da corvo e la diffusa percezione che siano confidenti e dotate di mente tattica.
Veliia: Nazione di riconosciuta predominanza valchirica. Residuo dello spirito del Grande Regno del Nelom.

7 lug 2016

Sentea - Parte 1 - Theria

Continua l'esperimento fantasy del blog e inizia il viaggio di Edrian Avamhaeir, La penna amaranto. 
Vi ricordo che questi brevi frammenti fungono più da presentazione dell'ambientazione de I Tre Equabilium che da narrativa pura, mi scuso quindi in anticipo nel caso risultino più pesanti del previsto. Come segnalato nella prefazione, l'idea è quella di scrive qualcosa di più avventuroso (e digeribile) a viaggio concluso, magari ambientato nella terra che troverete più interessante fra quelle descritte. 
Premetto che ho aggiunto a fine testo un piccolo glossario, che vi aiuti a capire meglio aspetti dell'ambientazione che il narratore, per esigenze letterarie, dà per scontati (i termini sono evidenziati da un colore diverso, vi basta cliccarli).  
Vi lascio alla lettura: 

 I Tre Equabilium


Sentea
 Parte 1 - Theria

Il mio viaggio iniziò nel 1073. Non sono un uomo superstizioso, ma trovavo poetico partire il primo giorno dell’anno, memoria dell’Equabilium. Mi trovavo a Latheryan, capitale ufficiosa della nostra Theria, la più grande metropoli costiera della Sentea, forse dell’intero Geo. È difficile descrivere la magnificenza di quella che nel mio cuore è divenuta una seconda casa. Potreste vagare fino a perdervi fra i suoi quindici quartieri, respirare il profumo dei gigli nei giardini nobiliari e passeggiare a testa alta per la piazza dei templi. Ma ciò che, personalmente, preferisco è farmi accarezzare dalla brezza del grande porto, dove i naviganti vengono accolti dal maestoso arco chiamato “porta dei leoni marini”, guidati da “Il Sole latheryano”, lo sfolgorante faro. La metropoli custodisce inestimabili realtà, gilde, consorterie. Latheryan è viva, in tutti i sensi e per accorgersene basta camminare per le sue strade, osservare la moltitudine di persone che la abitano, così diverse fra loro eppure accomunate dal desiderio di renderla grande. Non è importante come in altri luoghi essere un umano, un fàsiel, un elfo, essere povero, un mercante, un nobile, tutti sono latheryanensi. Questo è il meraviglioso sogno ispirato dalla casata reale dei Thanrir, il cui castello svetta al centro della città e non in una sperduta campagna. Superate le mura esterne e la porta dei leoni di terra, si mette piede nella vera Theria, quella dove il sogno non ha ancora attecchito e forse mai lo farà.
Sapevo cosa mi aspettava nel mio viaggio verso nord, obbligatoriamente lungo la costa orientale.
E qui, per chi non conoscesse la Theria, è necessario aprire una parantesi sulla sua storia. Dovete sapere che si tende a distinguerla superficialmente in due mondi: quello dei nativi e quello degli invasori, quello delle coste e quello dell’entroterra.   
La Theria è una penisola, protetta al confine nord dalla catena montuosa degli Utmot, una difesa naturale che ha retto fino all’Era degli esodi, quando gli eredi di uno degli storici Grandi Regni subirono una delle più massicce incursioni di quel periodo. Popoli diversi fra loro, scacciati o sfuggiti ad altre realtà, spesso sanguinolente, attraversarono ferocemente il valico di Etmal, unica vera porta per la Theria.
Furono chiamati barbari, ed è inutile cercare giustificazioni alla violenza di quegli anni, poiché lo erano.  
Non aver vissuto quegli eventi porta a valutare quasi fortuito il fatto che, la grande invasione, non abbia alimentato il razzismo dei theriani nativi, ma solo la loro xenofobia.
Cercherò di spiegarmi meglio: noi umani, per lungo tempo, ci siamo ritenuti i padroni di questa splendida terra, sebbene i saggi risviiani la considerino la culla della genesi elfica, ma come riversare l’odio su altre specie quando i principali incursori erano a propria volta umani? Non tutti, certo. La tribù dei valedan era composta da tethrikos e quella dei romenek da ontur, ma quelle che arrivarono a un passo dallo schiacciare la civiltà nativa: i grental, gli yrman, gli ubelivisk, i rodem e persino i tharùman erano tutte umane. Questa peculiarità contribuì a forgiare un sentimento d’appartenenza a una causa comune, che coinvolse umani, elfi e qualunque altra specie che si frapponesse all’avanzata dei barbari. Un fausto evento che non bastò a contenere quello infausto. La caduta della storica capitale Ramanthir, distrutta dai grental, gettò nel panico la resistenza. I nativi si trovarono sempre più schiacciati verso le coste, e la disorganizzazione prese il sopravvento, spezzettando i fronti, portando a combattere battaglie per la propria porzione di patria ma senza una linea comune, rendendo i barbari realmente inarrestabili.
Senza la casata dei Thanrir, i nativi avrebbero ceduto durante l’Era della conquista. Non lo dico per piaggeria nei confronti della famiglia reale, ma perché si tratta di una realtà storica incontestabile. È certo che a consigliarli furono phoenisco migrati dalle spoglie dell’Impero di Cortaliia, portatori dell’antica cultura dell’Unione, ma realizzarono con le proprie forze quella rivoluzione che, oggi, ci consente di ritenerci una delle terre più libere della Sentea. Inutile recriminare che si appropriarono di una corona che spettava a qualche infante rifugiato a Eltharia.
I Thanrir, signori di Latheryan, ebbero il merito di riportare organizzazione, coordinando gli sforzi congiunti della grandi città della costa: la mia Jascarin, Faleyada, Thomàd. Probabilmente sarebbero riusciti a coinvolgere persino l’orgogliosa Malitha, ma gli invasori yrman ebbero prima la meglio sul suo confine. Il vero capolavoro dei Thanrir, però, fu riuscire a guardare negli occhi il futuro, convertendo alla loro causa la tribù barbarica più temuta della grande invasione: i grental. Fa quasi sorridere pensare che oggi, a distanza di cinque secoli da un atto che alcuni nativi definirono folle, la parola grental si associ ai cavalieri più fedeli del regno.
Forse intervennero gli stessi dei in quel che, pur essendo uno scettico per natura, non riesco a definire che un miracolo. Convertire i grental equivalse a frenare le incursioni delle altre potenti tribù e allentare la pressione sulle coste, consentendo a tutte le realtà di assestarsi e confrontarsi con quello che sarebbe stato il nuovo futuro della nostra terra.
Tuttavia, i sogni di chi era in grado d’immaginare non solo la collaborazione fra specie, ma persino fra barbari e nativi, dovevano ancora scontrarsi con tutti coloro che li avrebbero osteggiati con cieca furia.   
Ad oggi, per colti signori di altre terre, la Theria è solo un’espressione geografica. In fondo, come dargli torto? Il miracolo dei Thanrir non riuscì a spingersi oltre. Il desiderio di regnare sulla Theria tutta rimane tale e ci lascia liberi nei pensieri ma intrappolati nella realtà.
Potrei narrare per ore, forse giorni, delle nostre divisioni interne, di come, dal miracolo dei Thanrir, barbari e nativi abbiano trovato nuovi equilibri, diversi di regione in regione, di città in città. Saprei elencarvi a menadito dove si sono formate nuove alleanze e quali culture sono prevalse, o come si sono influenzate. Potrei descrivervi le forme alternative al regno che sono sorte, ponendo, con pericolosa efficacia, la forza o il denaro al centro e non avrei difficoltà a individuare dove potenze straniere si sono insinuate con subdola o palese influenza. Ma ritengo che per capire la Theria dei nostri giorni sia più importante individuare i due centri che si contrappongono con impareggiabile ferocia, militare e politica, al regno dei Thanrir.
Il mio viaggio verso nord, obbligatoriamente lungo la costa orientale, fu tale poiché ogni viaggiatore del sud sa che, avventurarsi nell’entroterra, è follia per una semplice ragione: la tribù degli ubelivysk, il flagello della Theria. Se esiste un popolo incapace di adattarsi alle realtà che lo circondano e di trarre ispirazione dalla parola civiltà, questo è quello degli ubelivysk. Così come i grental furono vitali per aiutare i Thanrir a far nascere il loro sogno unificatore, gli ubelivysk furono determinanti per ucciderlo impietosamente.   
Parliamo di un popolo che non avrò remore nel definire ancora barbaro, retrogrado sotto tutti i punti di vista, tranne che nell’esercizio della forza, poiché nessuno è sanguinario e bravo a uccidere, in Theria, più di un ube.
Queste bestie, che vedono nel cinghiale un animale sacro, non sono intenzionate a cedere il passo, resistono alla civiltà nelle loro terre ormai brulle e compiono fugaci e irruente incursioni lungo tutto il confine, rubando risorse, distruggendo villaggi e difese, ma soprattutto rapendo poveri innocenti che non faranno mai ritorno. L’elenco dei sovrani che hanno tentato di schiacciarli, anche al costo di compiere un eccidio, è lungo e inglorioso. Gli ube paiono dei demoni che ci costringono a fallire ancora e ancora con la loro dissoluta insensatezza.  
Ciò dovrebbe bastarvi a comprendere perché preferii evitare di correre inutili rischi. Non c’è cultura che io possa apprendere da quelle genti.
Viaggiai dunque da Latheryan a Faleyada, la città dei conquistatori dell’Ivhen e poi verso Thomàd, luogo di umili e coraggiosi, ultimo grande porto dei Thanrir prima di avventurarsi nelle terre che non riconoscono la loro autorità. Da qui, anche i più sciocchi, preferiscono ancora le coste all’entroterra a causa dei barbari rodem, secondi in follia solo agli ubelivysk, con gli artigli ben stretti sulle rovine dell’antica capitale, che hanno soprannominato banalmente Rodema. Scegliendo invece il nord, ancora lungo la costa orientale, l’approdo più importante è il Sancit, patria del Consiglio Aureo dell’omonima repubblica, nient’altro che un’oligarchia di ricchi mercanti che si spartiscono i ricavati delle rotte theriane più floride, pagando fior fior di mercenari valedan affinché nessuno sia in grado di sottrargli i propri privilegi. Credo non vi sia difficile comprendere perché i Thanrir non siano mai riusciti a persuaderli a unirsi alla loro causa.   
Dalla terra dell’oro, la mia intenzione era quella di solcare ancora i mari e lasciare la Theria, superare tutta la costa risviiana e approdare in Saleria, ma albergava in me un desiderio nascosto: visitare un luogo ostile a Latheryan e i Thanrir quanto gli ubelivysk.
Ho infatti accennato a due realtà che si contrappongono efficacemente al progetto dei reali, la seconda è quella di Eltharia, la metropoli dell’entroterra.
Non lasciatevi confondere dalla sua posizione, la cultura di Eltharia e il suo popolo è di origine nativa. Durante la grande invasione resistette gloriosamente, stipulando accordi con tribù barbariche minori e una vitale alleanza con l’elfica Risviia. Ma l’evento culminante per il futuro di Eltharia fu, alla caduta della storica capitale Ramanthir, l’offerta di ospitalità alla famiglia reale: i Manthir. La casata che fu il perno del Grande Regno Theriano non ha mai recuperato la propria forza, e dopo l’ascesa dei Thanrir è sciocco credere che potrà mai farlo, tuttavia, il suo prestigio consentì la nascita del marchesato di Eltharia, sotto la famiglia dei Ler-Wales, i nostri veri rivali politici. Questa terra di cultura e nobiltà, oggi, fa da tramite fra realtà dell’entroterra estremamente variegate, ottenendo un pericoloso rispetto. Non lo dico per mancanza di obiettività, ma poiché, il modello che si nasconde dietro l’azione dei Ler-Wales, favorisce l’idea di una Theria talmente libera da rasentare l’anarchia. Preferisco un regno illuminato e unito capace di difendere i diritti di tutti, senza il prevalere di egoismi regionali. Potete comprendere come lo scontro fra queste due visione sia scontato. Sono le terre di ubelivysk e rodem, come un inevitabile tappo geografico, a impedire la guerra aperta fra queste due forze. Eppure rimane la guerra ideologica.
Mi aspettavo, da giovane viaggiatore con bruciante passione politica, che il marchesato fosse la patria di presuntuosi e al contempo rozzi retrogradi. Fu allora, quando compresi quanto mi sbagliavo, come i miei ideali non dovessero farmi cadere nella trappola della semplificazione, che la mia vita cambiò, rendendomi forse un po’ più saggio, davvero pronto al lungo viaggio che mi attendeva.
Il marchesato di Eltharia è una terra bellissima, con prati verdi e splendidi boschi di castagni. La metropoli è architettonicamente elegante e concede maggior respiro alla sua gente, sebbene sia complice il minor numero di cittadini. È difficile non rimanere impressionati dall’accademia de “I Serpenti di rubino”, dove si formano i più ossequiati incantatori theriani. Su tale punto, inoltre, mi vedo costretto a rimproverare il clero di Emathas latheryanense: questi arcani maestri sono signori rispettabili e non i perversi frequentatori di orge da loro descritti, ma non pretendo che la mia umile opinione faccia la differenza per chi ha visto nella magia sempre e solo la commissione di un sacrilegio, specie se insegnata da elfi stranieri.
Eltharia è dunque, sventuratamente, un luogo piacevole, con una nobiltà umile che professa libertà e uguaglianza quanto i Thanrir, ma che la mette in pratica solo in parte, mirando a un modello politico profondamente diverso, pericoloso, col supporto e il rispetto dei vicini, oltre che dell’antica famiglia reale.
Non so come sarà il futuro della Theria, quello che solo il Fato conosce, ma temo che molti theriani vedano le coste come un luogo di avventurieri e mercanti, liberi solo grazie alla propria ricchezza, e i reali come aspiranti tiranni dell’intera nazione. La nostra Unione, così, non potrà nascere mai.
Fu così, con gli occhi ancora pieni della bellezza di Eltharia, ma col cuore grave per il sogno che essa contribuisce a spegnere, che solcai il mare, lontano dalla patria per la prima volta, verso le nazioni gemelle di Saleria e Covia, pronto a scoprire tanto, forse troppo, sulle atrocità che i fratelli sono capaci di infliggere gli uni agli altri.


Fine Parte 1


Glossario
Equabilium: evento storico chiave dell'ambientazione. Un Equabilium avviene in seguito al sacrificio di un eletto del Fato che, con la propria morte, diffonde nel mondo la cognizione necessaria a impedirne l'autodistruzione. In seguito a un Equabilium il conteggio degli anni riparte da zero. 
Umani: la nostra specie e quella di Edrian, spesso ritenuta ambigua più che civile, ma allo stesso tempo la più prolifica di Geo.
Fàsiel: una delle specie che popolano Geo, particolarmente rispettata fra quelle che si ritengono civili. Conosciuti volgarmente come Alati. Caratterizzati proprio dalle loro ali (che variano in base all'etnia) e la diffusa percezione che siano avanguardisti.
Elfi: una delle specie che popolano Geo, mediamente rispettata fra quelle che si ritengono civili, ha un legame stretto anche con quelle ritenute boschive. Caratterizzati da fisici snelli, tratti fini e le orecchie a punta, con la diffusa percezione che siano snob.
Era degli esodi: antecedente all'Era della conquista. Caratterizzata da massicce migrazioni conseguenti al terzo Equabilium.
Grandi Regni: gli arcaici stati ritenuti storicamente la base del sentimento di appartenenza nazionalistica e dei modelli di leggi correnti.
Risviiani: abitanti della Risviia, nazione di riconosciuta predominanza elfica a nord est della Theria. Noti anche come elfi dell'Unione. Alcuni ritengono il valico di Etmal (porta per la Theria) e le terre limitrofe una loro estensione. 
Tethrikos: una delle specie che popolano Geo, mediamente rispettata (o temuta) fra quelle che si ritengono civili. Conosciuti volgarmente come Quattrobraccia. Caratterizzati proprio dai quattro arti superiori e la diffusa percezione che questi li rendano implacabili guerrieri.
Ontur: una delle specie che popolano Geo, mediamente rispettata fra quelle che si ritengono civili. Conosciuti volgarmente come Nani. Caratterizzati dalla bassa statura e il fisico tozzo, con la diffusa percezione che siano testardi e avari.
Era della conquista: antecedente all'Era delle lotte divine (l'Era attuale). Caratterizzata da conflitti sanguinolenti fra diverse realtà culturali, desiderose di soverchiare o difendere l'identità di una terra.
Phoenisco: una delle specie che popolano Geo, la più rispettata fra quelle che si ritengono civili. Caratterizzati dal loro sangue immortale, che gli consente di immolarsi e rinascere ogni ciclo vitale (di circa due secoli). Nonostante questo rischiano una lenta estinzione. 
Impero di Cortaliia: antica realtà politica che si è sgretolata poco prima del terzo Equabilium. Reggeva le terre delle attuali Covia, Saleria, Lumia, Phoschia, Risviia, Antea e parte della Kermiia. Era ritenuta una delle potenze più illuminate dell'epoca.      
Unione: Atavica alleanza fra le specie civili della Sentea, che resse ininterrottamente fra il primo e il secondo Equabilium. Ritenuta da molti la culla della civiltà.  
Sentea: Continente (in alto e al centro della mappa) particolarmente ricco e vivace. I suoi abitanti tendono a ritenersi i più civili (e importanti) di Geo.  
Ivehn: Cuore delle terre delle creature boschive (la grande isola a destra della mappa, la nazione più visibile è Aeliath). Soggetto da tempo alla "civilizzazione" per opera di numerose realtà della Sentea.
Emathas: divinità creatrice degli umani. Ritenuta ambigua e sfaccettata quanto i suoi figli.
Magia: ritenuta universalmente la capacità di manipolare l'energie impresse naturalmente in ogni aspetto del creato, ma senza l'intercessione delle divinità. 
Fato: Il Dio degli dei. Onnisciente, onnipotente e soprattutto inconoscibile.