3 mar 2016

Tra le pieghe del sipario

Oggi vorrei parlare un po' del mio libro "Tra le pieghe del sipario" e condividere con voi il prologo della storia. Così, per darvi un assaggio.
Partirei dalla sinossi, per poi aggiungere qualche dettaglio:

Il Puppets Asylum è un circo esuberante e grottesco diretto dall’ambiguo Aurelian Dragomir, dove sono i tarocchi a determinare l’ordine delle esibizioni dei suoi singolari artisti. Riuscirà uno spettatore qualunque, ossessionato dalla stella del circo: la celestiale Serafina, a scoprire i segreti  più oscuri di questa compagnia?
Un storia che alternativamente si tinge delle sfumature di un giallo o di un horror, dove razionalità e irrazionalità si scontrano e dove tutto può rivelarsi un inganno.  

La particolarità di questo testo sta, forse, proprio nella sua natura ibrida fra horror e giallo. Devo confessare che per il primo genere ho sempre avuto una predilezione, specialmente per l'horror psicologico, mentre del secondo non sono un appassionato accanito. E' stata dunque una sfida stimolante combinarli per esigenze narrative. 
La storia è scritta in prima persona ed è suddivisa fra parti oniriche (principalmente descrittive e criptiche, rese più comprensibili dall'avanzare della trama), parti più scanzonate (legate alla natura del protagonista e il suo quotidiano) e parti investigative (conseguenti agli eventi della storia e le riflessioni del protagonista). A volte questi elementi si intrecciano e si sporcano gli uni con gli altri. Specialmente in questi casi il lettore è chiamato a farsi la propria idea, estrapolandola dagli eventi, le informazioni ottenute e le parole dei personaggi.
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Vi lascio al prologo della storia:

Prologo

          
L’altra notte, ho fatto un sogno.
Era un sogno strano, oscuro e avvolgente, ma non era un sogno sgradevole. Potevo percepire un’emozione forte, calda eppure malinconica, che mi guidava in una terra sconosciuta, come se i miei occhi osservassero il ricordo di qualcun altro. Una nebbia sottile offuscava la vista, mentre, passo dopo passo, procedevo in una foresta colma di misteri indecifrabili.
Sentivo dei sussurri, dietro di me, ma voltarsi equivaleva a udirli sempre alle proprie spalle.
Erano delle creature, quelle ombre nere e sfuggenti fra la flora selvaggia? Credo di saperlo, ora.
Le forme contorte dei salici e il frusciare del loro fogliame cinereo mi spaventavano, ma era un’emozione tutta mia, da spettatore; poiché la forza che muoveva i miei passi, semmai, era inebriata, scalpitante.
Stava per accadere qualcosa di decisivo, di fondamentale, alla base di uno straordinario susseguirsi di eventi, capaci, nella loro immanità, di far gelare il sangue. Allora perché, il mio, pareva sul punto di prende fuoco? Non potevo saperlo.
Arrivai in un’ampia radura triangolare, e ne raggiunsi il centro. Lì, per la prima volta, vidi le mie mani, fatte d’ombra, che poggiavano sul terreno una pietra levigata, con uno strano simbolo sopra: un’infinità di figure geometriche inscritte, circondate da parole e lettere di un alfabeto che non avevo mai visto. Mi persi a osservarle per un tempo che pareva infinito, ma il vero padrone del sogno non era immobile. Era come se la sua emozione rovente si stesse incanalando verso la pietra, con un getto di energia invisibile, capace di rendere irrespirabile l’aria circostante.
Prima che potessi realizzarlo, la pietra era già divenuta un masso, dieci, poi cento, poi mille volte più grande. Una montagna nasceva di fronte ai miei occhi, reclamando metà della radura e parte della foresta, senza che la natura avesse alcun modo di ribellarsi.
Avrei spalancato la bocca, incredulo, persino atterrito, ma non potevo farlo. La formazione rocciosa aveva smesso di crescere, solamente per cominciare a modellarsi, guidata dallo sguardo che condividevo. Un potere inimmaginabile dava vita a mura imponenti, torri merlate e tetti conici, la stessa materia alterava la propria forma per ottenere quella desiderata, senza limiti, sgretolando la mia concezione dell’impossibile.
La montagna, ora, era un castello, maestoso e terribile al contempo, la dimora di un potere superiore e irraggiungibile, che non doveva essere sfidato. Tuttavia, l’opera di creazione, non era volta al termine: rivoli della stessa energia modellavano delle inferriate, che circondavano la radura rimasta libera alle mie spalle. Dei rampicanti vi si attorcigliavano, e da essi, rose bianche e nere sbocciavano, ricolme di rugiada. Un giardino, con sculture intagliate nelle siepi di bosso, prendeva forma: si ergevano cavalieri con le spade rivolte verso il cielo, ma privi di testa; fiere rabbiose o ibride con gli uomini, come le creature mitologiche; fanciulle pudiche, incapaci di coprire la propria nudità e mostri deformi, ingobbiti, con troppi arti o senza, sofferenti o fieri della propria diversità.
Un soffio di vento caldo diffuse nell’aria del polline fra il rosso e l’arancio, mentre un’alba innaturale sorgeva, illuminando quel luogo del mondo che non doveva esistere.
Tutto rimase immobile, come se il silenzio fosse indispensabile, come se colui che non ero, dovesse godere di quel momento. Era una rivalsa, la sua? La dimostrazione a qualcuno in particolare, con la presunzione di un bambino, di cosa fosse capace?
La stasi non durò a lungo. Una folata rapida, ma intensa come quello di un tifone, prese il sopravvento. Alle mie spalle, il cancello che chiudeva il perimetro delle inferriate, si spalancò. Alberi giganteschi vennero spazzati via come fuscelli. Una nuova radura, circolare, nacque in meno di un istante.
Un tendone scese adagio dal cielo, nero e bianco come le rose, e dei pali emersero dal terreno, consentendogli di dare forma all’ultima anomalia di quel sogno.

Mi svegliai di soprassalto.
Non ero spaventato, ma forse avrei dovuto esserlo. Il cuore batteva all’impazzata, carico, vivo; sentii il bisogno di premere il palmo di una mano contro il petto, come se dovessi fermarlo.
«Va tutto bene.» ripetei a me stesso almeno tre volte, calmandomi gradatamente, convincendomi che fosse davvero così.
I miei occhi scrutarono l’oscurità della camera, abituandosi a distinguere le sagome dei vestiti, sparsi per la stanza generando un disordine del quale solamente io ero capace. Gli tenevano compagnia sacchetti di patatine vuoti e fazzoletti sporchi, ma non era il momento di pensare alle mie pessime abitudini. Gli occhi cercavano qualcos’altro, volgendosi al comodino in vimini alla mia sinistra: poco più in alto si soffermarono sul poster della splendida Eleonora Montale, in arte “Serafina”.
Sospirai, riconquistando realmente la serenità, seppur brevemente.
Sopra il comodino, di fianco a una sveglia elettronica che segnava le tre e un quarto, si trovava un biglietto che mi era costato molto, ma non avrei mai ritenuto troppo.
Una scritta sgargiante e di un colore acceso, che a quell’ora non era distinguibile, recitava: “Puppets Asylum, il circo stregato, valido per una persona e una serata che non potrete dimenticare”.
Percepii un brivido incontrollabile lungo la schiena. Non lo avrei fatto, non lo avrei fatto di certo.

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