2 mar 2016

Miraggi

Dopo tantissimo tempo il blog torna in vita!
Vorrei evitare di perdermi in chiacchiere sugli impegni/eventi che mi hanno tenuto lontano da questo progetto e concentrarmi su quello che cambierà:
Inanzitutto le storie brevi verranno riportate interamente nei post, senza link esterni. Cercherò poi di informarvi anche sui progetti che mi vedranno coinvolto come sceneggiatore e di mettere in anteprima qualche pagina dei romanzi scritti.
Sarà inoltre possibile seguirmi anche su facebook attraverso la pagina Enrico Serpi - In cerca di Calliope.
Ma passiamo all'ottava storia del blog: "Miraggi". Ci tenevo a riniziare questo percorso con quella che è la storia "breve" più lunga che abbia mai scritto (ho numerato i paragrafi per darvi un riferimento) e l'ho rispolverata un bel po' per renderla il più possibile conforme al mio stile attuale. La storia tratta principalmente il concetto di libertà, a voi scoprire in che modo. E' ambientata in luoghi dal sapore mediorientale e in un epoca indefinita che strizza l'occhio al passato. Non è adatta ai bambini
Senza dilungarmi ulteriormente, lascio spazio alla storia:

Miraggi

Immagine resa disponibile dal sito https://pixabay.com/


In un lontano regno ha origine la storia.
Dove domina un palazzo regale con lussureggianti giardini.
Qui un giovane principe ne percorre le preziose sale.
E la sua mente vaga e inverte dal piccolo al grande.
Dal palazzo s’invola lo sguardo della sua anima.
Dal regno fugge via senza mirare indietro.
Nei deserti le cascate di dorata sabbia lo accolgono.
E da lì corre ancora, nell’indefinibile.


(1) Era immobile, in una stanza dalle pareti splendenti e ricca di adornamenti fra i più preziosi. L’oro modellava rilievi in dipinti dai colori forti, tappeti dagli eleganti intrecci ricoprivano il pavimento e sculture di gemma trasparente si ergevano a ogni angolo. Guardandosi attorno, gli occhi non potevano che brillare, specialmente quelli di qualcuno di avido; ma i suoi occhi, contrariamente, era distratti, intenti a sognare quel che non aveva a che fare con la ricchezza.
Dopo tutto era un principe, il principe Josmar, nato fra monete luccicanti e cresciuto in una culla di rubino. I suoi avi avevano accumulato tesori per secoli e, forse, era proprio l’abitudine a tutto quello sfavillare, non dover faticare per nulla, a fargli desiderare ciò che il denaro non poteva concedergli.
Il principe Josmar voleva conoscere, viaggiare, scappare dalle costrizioni che quella vita aveva prestabilito per lui.
Avendo ormai raggiunto la maturità, o almeno quella che a livello fisico era reputata tale, avrebbe presto conosciuto la guerra e scelto una sposa.
Sul primo campo, Josmar, aveva udito numerosi racconti per voce del gran visir, fin dall’infanzia; ma per un principe adulto era necessaria un’esperienza diretta.
Anche se le gesta eroiche alimentavano le sue fantasie, il principe già sapeva che, comandare un esercito, comportava il solo “onore” di decidere quali soldati dovessero vivere e quali sacrificarsi per la vittoria. Sempre che tutto andasse secondo i piani.
Josmar disdegnava la guerra, la riteneva un’antichissima bestia costantemente rabbiosa e imprevedibile, che risvegliava gli istinti più bassi degli uomini, la furiosa preservazione di se stessi.
Era convinto che l’unico scontro che comportasse realmente onore fosse il duello, fra due uomini consapevoli del valore di una simile sfida e incapaci di abbandonarsi a vili scorrettezze, poiché assente il timore di subirle. Essenzialmente un’utopia.
Dove avrebbe mai trovato un combattente con i suoi stessi ideali? Nel suo regno certamente no.
Che dire poi del secondo campo?
Innumerevoli erano gli interrogativi che Josmar si poneva sull’amore. Ma anche in questo caso, il principe, sapeva che la vita non gli avrebbe riservato quel che cercava.
Non per l’aspetto. Era certamente giovane, di buona altezza, dai bei tratti e dalla pelle del colore di un chicco di caffè. I suoi occhi erano verdi come smeraldi preziosi e la sua barba, pur rada, elegantemente curata.
Ma se anche l’aspetto non fosse bastato, la sua posizione avrebbe consentito alla sua compagna di ottenere tutto quel che bramava.
Cosa poteva dunque temere Josmar? Non una, non dozzine, non centinaia, che dire? Migliaia di donne, avrebbero desiderato altro che diventare la sua sposa. Anche la seconda o la terza.
Il principe, però, non voleva una compagna fedele, uno scendiletto o una schiava di piacere. Josmar voleva amare ed essere amato e sapeva che tutte quelle donne avrebbero amato il principe, non lui.
Per questo sognava ancora una volta di luoghi lontani, di affascinare una ragazza coi suoi racconti, coi suoi pensieri, e di scoprirei in lei assonanze e dissonanze nell’equilibrio giusto che alimenta passione e dolcezza, modellando amore.
Lo sconforto per il suo destino, però, tornava presto, seppure in tanti avrebbero fatto volentieri a cambio.
Josmar si sentiva vincolato, costretto in una prigione fatta di catene d’oro che voleva spezzare, anche col rischio di cadere nel fango.
Conosceva bene le alternative. Poteva rassegnarsi al suo futuro e divenire lascivo, avido e tirannico, come tutti i suoi avi; oppure, poteva ribellarsi e dar vita a quel piano che la sua mente sussurrava da anni: fuggire.
Questa volta, il coraggio, trasformò i pensieri in azione.
Giovane e inesperto, il principe portò con sé il minimo che riteneva necessario. Arraffò provviste d’acqua e cibo, monete e gemme per poco peso e una splendida lama d’argento sulla quale si narravano leggende.
Coi tratti celati da un velo bianco e in sella a un destriero vigoroso dal manto nero, partì al galoppo senza indugi.
Non voleva essere seguito, difficile credere che non sarebbe accaduto. Josmar sapeva di poterlo evitare in un solo modo: avventurandosi fra le dune di quel dorato deserto a sud. Una rapida via verso la morte per la maggior parte degli uomini, ma nella quale, rintracciarlo, era bene o male impossibile.


(2) Non fu complicato lasciare il regno. La seta che mascherava i suoi tratti era preziosa e la gente poteva facilmente confonderlo per un nobile, ma nessuno immaginava si trattasse del principe Josmar.
Gli zoccoli del suo destriero nero sollevarono sabbia in poco meno di un’ora.
Era straordinario quel deserto, osservato innumerevoli volte con desiderio, come un ostacolo da affrontare con piacere per il raggiungimento di uno scopo: la libertà.
Quella lunga distesa pareva infinita. Era principalmente piana, ma le dune gli facevano da colline, colline mutevoli come il tempo. Affidarsi a loro come un riferimento duraturo era come affidare la propria vita a un assassino.
Il vento leggerissimo, quasi assente, dava vita a uno spettacolo stupefacente: i granelli di sabbia finissima si spostavano lievi in ogni dove, ordinati per lo più dal corso della brezza. Erano loro, in quella lenta azione che poteva durare ore come minuti, a formare e disfare le dune.
Il calore e la luce del sole dominavano incontrastate. Non una nuvola, non un riparo.
Il re abbagliante, dall’alto del cielo, diffondeva i propri figli come raggi roventi.
Era giorno e il regno del deserto rendeva manifesto il proprio essere.
Josmar indugiò un solo istante. Osservò la sabbia dorata da quel punto, come se fosse una soglia. Incredulo e fiero al contempo, spinse il destriero in avanti.


(3) Il calore era un dono, questo si ripeteva il principe mentre la cavalcatura avanzava quieta.
Non si preoccupava di essere celere, almeno in quel momento. Voleva godere dello spettacolo, dello splendore di quel paesaggio.
Era certo che nessuno si fosse ancora accorto della sua fuga, e quando lo avrebbero fatto, seguite le sue tracce fino al deserto, sarebbero tornati indietro, raccontando a suo padre che, per compiere un gesto simile, doveva essere caduto vittima della pazzia.
Se la rideva, soddisfatto. Non lo atterriva minimante l’idea che, forse, quella fosse davvero una pazzia.
Passarono delle ore, non molte, e il principe, pur sempre impavido, si soffermò a riflettere s’un dettaglio tralasciato:
Non sapeva quanto avrebbe impiegato ad attraversare il deserto.
Non esistevano stime precise, a dire il vero. I pochi che sostenevano di averlo fatto, lo avevano fatto in tempi molto diversi. C’era persino chi raccontava di esservi rimasto intrappolato per mesi, ovviamente perdendosi.
Non erano storie particolarmente allegre.
Josmar si ritrovò a indugiare sui particolari di quei racconti, le sofferenze, gli stenti, persino la follia.
L’animo ardimentoso li respinse di colpo. Il suo viaggio, certamente, sarebbe stato diverso. Quello era un cammino verso la libertà e lui non era uno sprovveduto.
Sapeva come ripararsi dal caldo e dal freddo e avrebbe razionato al meglio le provviste.
Una volta attraversato il deserto trovare viveri sarebbe stato uno scherzo.
La mente di Josmar si proiettava verso il futuro, in modo rassicurante.
Prendersi gioco dell’ostacolo era un metodo per trovare la forza di volontà necessaria ad affrontarlo. Il principe lo faceva inconsapevolmente e questo, per lui, era un bene.
Sempre che la possibilità di superare l’ostacolo non fosse soltanto un’illusione.


(4) Mancava poco al tramonto e il principe osservava la posizione del sole.
La temperatura non accennava a scendere e l’abitudine o il giusto abbigliamento non sembravano bastare. Quel calore non perdonava.
Josmar si sentiva lievemente stordito e affaticato, anche se aveva compiuto sforzi fisici da poco.
Quando il sole si tinse d’arancio decise di fermarsi.
Era uno spettacolo seducente. I colori del tramonto tingevano il cielo, mentre la sabbia, non più dorata, si scuriva, producendo un’atmosfera magica.
L’ammaliante deserto del tramonto, però, diveniva anche misterioso e ingannevole. La sua bellezza, una volta attratto l’uomo, lo tradiva, gettandolo in una sconfortante notte oscura e gelida.
Al quel freddo, il principe, non era abituato. Sapeva sarebbe arrivato, ma non lo aveva immaginato così intenso, così rapido, pronto a insinuarsi in ogni spiraglio.
Quella notte era così nera in confronto al recente splendido giorno, e un sensazione opposta tanto forte da essere quasi inconcepibile, favoriva l’avanzare di paure irrazionali sulla debole mente inquieta.
Percepiva artigli d’ombra poggiarsi sulle sue spalle, per dilaniarle e trascinarlo via nella notte ignota. Immagini imperscrutabili si rivelavano e sparivano. Suoni terribili rimbombavano in un silenzio impossibile. Si infiammavano luci lontane, irraggiungibili, ma rosse come il sangue; fari in luoghi dove non voleva essere, ma che gli occhi lo condannavano a guardare, rendendolo lì almeno in parte, in mezzo al terrore.
Josmar si svegliava tremante, incubo dopo incubo. Erano sempre confusi e dalle difficili interpretazioni, nulla di logico, ma era proprio questo a renderli così agghiaccianti.
Non era forse il peggior timore dell’uomo: l’ignoto? La primitiva paura del buio e della solitudine, subire il male da qualcosa che non si comprende, o non comprendere qualcosa e temere per questo che conduca al male.
I sensi di Josmar lo impietrivano, la sua mente, disperata, reclamava il giorno, ma continuava a risvegliarsi di notte, la stessa notte gelida e ignota, pronta ad assalirlo con un altro incubo mostruoso.


(5) La prima notte lontano dal proprio comodo letto, dalle ricchezze e il lusso, non poteva essere peggiore.
Josmar aveva riposato poco, troppo poco, per quella mente stordita dal calore e congelata dalla notte. La luce del giorno, al suo arrivo, si rese piacevole, ma quando le temperature tornarono roventi, l’intero corpo parve sul punto di cedere.
Non era passato neanche un giorno, neanche un misero giorno.
Josmar era stremato, confuso. Quel mare dorato era fuoco, al contatto, e non sarebbe riuscito a riposare ancora neanche volendo.
Il principe tornò in sella. Il suo sguardo era spento. Una flebile memoria, più simile a un istinto, era l’unica cosa a guidarlo.
Passarono ore ottenebrate, che lo resero più simile a uno spettro che a un uomo. La sua mente combatteva una battaglia all’ultimo sangue, e quando i suoi occhi si chiusero, non lo fecero piacevolmente. Lo fecero a mezzogiorno, per un motivo di un semplicità disarmante: il crollo.


(6) La sua mente vagava ancora nell’ignoto, in incubi che, seppur della stessa intensità di quelli notturni, non riuscivano a risvegliare la sua coscienza.
Il tempo passava, incalcolabile. Il suo concetto non pareva nemmeno esistere.
La morte giunse a tendergli la mano, ma il gelo della notte, quello che aveva odiato, fu l’artefice del suo risveglio.
Privo di riparo, gli si gettò addosso con assoluta crudeltà, e il colpo fu così secco, da concedergli l’ultima possibilità di rinvenire.
Il vigore della sua giovinezza si fece largo, cogliendo quell’opportunità e legandosela al petto rabbiosamente, pronto a mordere chiunque provasse a sottrargliela.
Josmar si risvegliò di colpo, ma senza scattare in piedi. Si spalancarono i suoi occhi. Il resto del corpo era immobile, bloccato dalle intemperie che lo stavano sconfiggendo.
Riottenere la sensibilità di ogni muscolo era una sfida, favorita solamente dall’istinto di sopravvivenza.
Il principe si sentiva umiliato. Anche in un momento come quello la mente riusciva a trovare spazio al senso dell’onore.
Alcuni lo avrebbero ammirato per questo, altri deriso.
Forse, però, fu proprio il senso dell’onore, sciocco e immaturo, a triplicare l’ira e le sue forze, smuovendo il corpo, obbligandolo a consumare e cercare ogni energia nascosta, a gridare, come un generale che osserva le sue truppe arrendersi, per spronarle a continuare a combattere, ingannandole, giurando che la battaglia possa essere ancora vinta, permettendogli di raggiungere la carica per compiere ciò che altri ritengono impossibile.
Josmar riuscì a risollevarsi in piedi.
Gli occhi erano arrossati, le labbra secche, tutto il corpo tremolava per la fatica e il freddo, retto esclusivamente da quella volontà indomita necessaria a conquistare ogni singolo secondo di stabilità.
Il destriero era scomparso, il buio non aiutava a scorgerlo, ma non era certamente nei dintorni. Galoppava chissà dove, chissà da quanto. Forse era persino morto.
Tutto era andato perduto. Tutto ciò che era custodito nelle bisacce da sella, tutte le sue provviste.
Era la fine?
Era facile raggiungere una simile conclusione, a quel punto, ma la mente di Josmar era troppo impegnata a confondersi, troppo stordita, troppo silenziosa, per porsi anche le domande più ovvie.
Il principe cominciò a camminare, strascicando, coi bianchi abiti sporchi di sabbia. I passi erano lenti, difficili da conquistare, erano passi di volontà e basta.
Anche le energie nascoste, però, non posso durare per sempre. Per quanto il principe fingesse di ignorarlo, conquistando qualcosa in più, a corpo morto, muore anche la mente, muore la volontà.
Josmar vacillò, dando l’impressione di cadere all’indietro, ma il corpo, ondeggiando, in mano solo al volere di forze altrui, cadde infine in avanti, producendo un tonfo al contatto col mare di dorata sabbia.
A occhi aperti, le sue ultime energie si mossero verso l’orgoglio:
«Almeno morirò libero…» sussurrò, mentre una lacrima gli rigava il viso.
In realtà, l’ultima briciola delle sue energie, di nascosto, aveva raggiunto un altro fronte: il pentimento.
Era davvero necessario tutto questo? Era davvero necessaria quella fuga? Era davvero necessario morire per essere liberi?
Erano alcune delle sue scelte che si erano rivelate sbagliate? O era “La” scelta a essere sbagliata?
Perché non si riceveva mai nessuna risposta?
Qualcuno avrebbe risposto una volta morti?
Il suo corpo tremò, con un ultimo spasmo. Lo attraversò la terribile convinzione che no, non era così. La convinzione che non ci sarebbe stato nulla, che sarebbe morto senza sapere nulla, che sarebbe diventato nulla a propria volta e senza avere neanche la possibilità di rendersi conto d’essere tale.


Nulla…










(7) «Non riesco a farlo bere!»
Josmar sentì che il suo corpo veniva scosso.
«Dai a me, incapace!»
Percepì fresco sul viso, acqua che scorre, poi qualcosa afferrò la sua bocca, rigida. Ogni sensazione era debole.
Delle mani forzarono le sue labbra, obbligandole a scindersi con forza, il dolore era un eco lontano.
L’acqua scese nella sua gola, ma deglutire era difficile. Il corpo aspettava un comando che non riceveva. La conseguenza fu involontaria, incontrollabile: tossire.
Il principe Josmar era vivo e ancora nel deserto, in pieno giorno.
Due uomini si trovavano con lui e possedevano tre dromedari, riforniti di ogni necessità.
Gli uomini avevano i tratti della sua gente: cappelli e pelle scura.
Il primo era in carne, col viso rotondo e l’aria buona; gli occhi erano grandi e marroni e la sua barba arruffata.
Il secondo pareva il suo opposto. Era emaciato, col viso ovale e l’aria scortese; gli occhi sembravano due spilli grigi e la sua barba era incredibilmente curata.
Erano vestiti bene, ma non sembravano dei nobili, in ogni caso portavano scimitarre di buona fattura alla cinta.
In un primo momento Josmar non si preoccupò di chiedergli chi fossero. L’acqua aveva risvegliato i suoi istinti primari e la sua unica occupazione, ora, era bere litri del prezioso liquido, accompagnandolo con del cibo, offerto dagli uomini, che lo fece quasi ingozzare.
L’osservarono tutto il tempo. Quello grassoccio sembrava perplesso, o incuriosito; il secco invece appariva sdegnoso, o riflessivo.
Fu quest’ultimo a interrompere il silenzio:
«Siete stato molto fortunato, principe.» proferì con una voce roca, udibile il tanto che basta.
Sapevano chi era.
Josmar si fermò un istante a osservarlo, ma riprese rapidamente a rifocillarsi.
«Ci ha inviati vostro padre. Siamo soldati del palazzo, ma dubito vi ricordiate i nostri volti.»
Le ultime parole sembravano sprezzanti.
«I vostri nomi…» si limitò a domandare Josmar. La sua voce era affaticata.
«Io sono Rahim e lui Qader.»
Fu il più rotondo a parlare e la cosa non sembrò far piacere all’altro.
«Grazie.» mormorò semplicemente Josmar.
I due soldati si fissarono un istante, poi si acquietarono, rimandando la discussione a quando il principe avrebbe finito di sfamarsi.


(8) Josmar venne aiutato a montare in groppa a uno dei dromedari.
Preferiva i cavalli.
Quella bestia emanava un odore poco gradevole, ma era certo che, dopo la sua disavventura, per quanto lo riguardasse non fosse diverso.
I tre si misero in cammino, e fu lo stesso principe a riprendere la discussione:
«Stiamo tornando al regno?» domandò retorico.
«Sì, principe.» rispose Qader, senza battere ciglio.
Josmar tentennò, portando la propria cavalcatura a fermarsi.
«Qualcosa vi turba?» chiese Rahim. I soldati si erano fermati a loro volta.
«Non so se voglio seguirvi.» rispose il principe, senza troppi indugi.
«E cosa vorreste fare, allora?» 
Il tono di Qader era indagatore.
«Io…»
Il principe continuò a titubare. La sua mente lo ricondusse a quei terribili attimi che aveva creduto essere la fine.
«Pensate di restare nel deserto a morire? C’eravate quasi riuscito, principe.»
Qader parlava con un tono freddo, non aggressivo; ma proprio quella mancanza di sentimento, quella sincerità spietata, risultava fastidiosa.
«Non dovresti rivolgerti a lui in questo modo!» esclamò Rahim, preoccupato. Rivolse subito dopo un sorriso a Josmar.
«Principe, vostro padre vi aspetta. Il vostro regno vi aspetta. Dove altro dovreste essere?»
Josmar distolse lo sguardo. Osservò alle proprie spalle.
Dove doveva essere?
Che domanda apparentemente semplice, che nascondeva in sé tante di quelle sfumature e inganni da poter far impazzire un uomo.
«Possiamo dire al sultano di avervi trovato morto.» dichiarò freddamente Qader.
Joasmar alzò lo sguardo per fissarlo. Coglieva qualcosa in lui. Le sue parole parevano un’arma a doppio taglio.
In fondo, però, era una soluzione.
«Che cosa dici?» sbraitò Rahim, angosciato.
«Principe, seguiteci. Il regno è casa vostra. Lì potrete riflettere, discutere con vostro padre. É un uomo tanto saggio, saprà darvi consiglio.»
A Josmar venne quasi da ridere. Suo padre non era un uomo saggio, né qualcuno che fosse abituato a perdonare. Lui aveva il solo vantaggio d’essere un principe. I disertori, anche i nobili, venivano giustiziati senza indugi. Già immaginava quale prigione sarebbe divenuta il palazzo al suo ritorno. Una prigione della quale si sarebbe liberato solamente alla morte del sultano.
«Non v’invidio.» affermò Qader, dandogli l’impressione di avergli letto nella mente.
«Suvvia.» intervenne ancora Rahim «Noi vi ammiriamo, principe. Voi sarete il nostro sultano, un giorno; l’uomo più potente del regno, il più nobile, il più ricco, il più amato!»
Sembravano lusinghe melliflue, ma erano la verità. Al regno aveva tanto. Non tutto quello che voleva, certo, ma nel mondo esterno aveva rischiato la morte in così breve tempo.
Una volta divenuto sultano, forse…
«State ancora a pensarci, principe? Vi prego!»
Rahim continuava la sua supplica, mentre Qader si limitava a fissarlo con quegli occhi a spillo, imperscrutabile.
Era un bivio, un bivio sul quale, poco tempo prima, non avrebbe indugiato un istante. Eppure ora lo faceva. Valutava ciò che era a favore e a sfavore con una prospettiva diversa. Non era affatto semplice scegliere.
La libertà. Aveva aspirato alla libertà.
Ma quanto era fondato quel concetto? Quanto era fondata quella ricerca?
La libertà comportava rischi incredibili e in cambio non era detto la si ottenesse realmente, a meno che non si considerasse la morte una liberazione.
Ma lui voleva la morte?
Oppure scappava da lei, come ogni altro essere vivente?
Chi gli garantiva di trovare qualcosa di vero, la fuori?
Chi gli garantiva che ciò che cercava esistesse?
Aveva avuto tanto, tantissimo. Cose per le quali innumerevoli persone avrebbero ucciso, a lui erano state regalate.
Perché era così egoista da non accontentarsi?
La sua ricerca di libertà era un pregio o era semplicemente una pretesa? Quanto derivava dalla morale e quanto dall’immaturità?
Possibile che nessuno dei suoi avi avesse cercato di percorrere quella via?
Tutti avevano accettato il loro destino senza ripensamenti?
Oppure sapevano qualcosa che lui ignorava?
Avevano raggiunto una verità segreta?
Qualcosa che concedeva solamente l’esperienza?
Forse, avevano scoperto che la libertà era una menzogna. Una favola per bambini. Un’utopia.
In quante utopie aveva creduto?
«Principe, forza. Ci date motivo di preoccuparci, se restate tanto immobile.»
La voce di Rahim risveglio Josmar dai suoi pensieri.
«Vi seguo. Fate strada.»
Alla risposta del principe, Qader, distolse lo sguardo. Aveva scosso la testa?


(9) Proseguirono il cammino in silenzio.
Joasmar osservava le spalle dei due soldati. Non sapeva che espressione avessero né cosa pensassero.
Anche lui aveva smesso di riflettere. Cercava di lasciare la mente quieta, di distrarsi con il paesaggio, che aveva perso tanto in bellezza, dopo quelle vicende.
In breve tempo si rese conto che i due uomini, per rientrare, avevano scelto un percorso diverso dal suo. Dovevano essere esperti e lo confermava della vegetazione in lontananza. Un’oasi.
Il principe s’illuminò.
Avrebbe potuto rinfrescarsi, togliersi la sporcizia di dosso.
«Facciamo una sosta. Vi assicuro che non scapperò, Rahim!»
Josmar voleva risultare scherzoso, ma i due soldati non risposero. Si limitarono a fermarsi.
Il principe lo prese come un assenso e si diresse immediatamente verso l’oasi.
Era un paradiso, poteva vederlo da lontano. Sembrava innaturale, inverosimile. La vegetazione era florida, di un verde intenso, le palme erano altissime e nascondevano lo scorrere di un fiumiciattolo, che si gettava in un piccolo lago splendente.
C’era da chiedersi quali fortuite condizioni avessero permesso la nascita di quel luogo. Erano gli straordinari contrasti del deserto.
Fu in quell’istante che Josmar sentì uno strano rumore provenire dal lago.
Nascosto dalla vegetazione, il principe volse lo sguardo verso l’origine del suono.
Colse una nera chioma ondulata. Delle bronzee spalle nude. Braccia snelle e  dei fianchi sottili.
La figura era immersa nel lago, di spalle rispetto al principe, ma si stava ergendo lentamente, lasciando cadere tante piccole gocce a increspare l’acqua.
I capelli bagnati si mostrarono nella loro lunghezza, sempre più giù, fino a raggiungere il bacino.
Il principe Josmar si ritrovò a deglutire, mentre gli occhi spalancanti osservavano.
Era una donna.
Non sembrava essersi accorta di lui e continuava a muoversi sinuosa, rinfrescando il proprio corpo con l’eleganza di una dea.
Il principe non si mosse. La sua mente aveva deciso di tralasciare se fosse lecito o meno restare a guardare.
Ebbe modo di osservarne il viso poco dopo, mentre usciva dall’acqua. Le labbra erano di un rosso leggero, il naso fine, lo sguardo sognante e le iridi dello stesso colore di quelle acque azzurre.
Non si chiese cosa ci facesse lì una ragazza degna d’essere una principessa, si limitò a lodarla per le sue grazie.
La giovane si rivestì con degli abiti preziosi che alternavano il rosso all’arancio, e si pose al collo una preziosa collana d’oro adornata da un grande rubino.
La ragazza scomparve fra la vegetazione in un istante e per il principe fu come lo spezzarsi di un incantesimo.
Scosse la testa, tornando a riflettere.
Com’era possibile che fosse lì da sola?
Come vi era arrivata?
Non la seguì. Non aveva il coraggio di mostrarsi in quello stato a una simile visione. Finì perciò per fare quel che aveva già progettato: lavarsi.
Fantasticò per tutto il tempo su di lei, tanto da restare a mollo più di quanto fosse necessario. Finché non udì dei passi avvicinarsi.
«Rahim, Qader, ora vi raggiungo! Non avete di che preoccuparvi, non mi è accaduto nulla.»
Il principe si era già alzato in piedi. Trovandosi fra uomini non aveva nulla di cui vergognarsi.
Il suo sguardo, incrociò degli occhi azzurri che sbucavano dalla vegetazione, delle labbra di un rosso leggero, un naso fine, dei lunghi capelli neri ondulati che arrivavano fino al bacino.
Si fissarono per alcuni istanti, entrambi immobili.
Lentamente le gote di ambedue arrossirono per il divampare dell’imbarazzo.
Alla fine, lei strillò.


(10) Gli servì un po’ di tempo per giustificarsi. E ovviamente dovette riconquistare un minimo di credibilità rivestendosi.
«Sono il principe Josmar.» le spiegò «Sono qui con due soldati del mio regno: Rahim e Qader. Loro vi confermeranno la mia storia.»
Sperò che rivelare d’essere un principe venisse a suo vantaggio.
«Io sono la principessa Amira» rispose lei «E non ho mai conosciuto un principe in una “veste” così poco appropriata.»
Josmar percepì un fremito. Si era lavato, certo, ma i suoi abiti non erano esattamente nelle condizioni migliori, per quanto avesse capito perfettamente che la ragazza non si riferisse a quella veste…
«Così, siete una principessa?» cercò di sorvolare.
«É per me un onore potervi dire che mi è parso chiaro fin dal primo sguardo.»
Amira l’osservò con perplessità.
«Non posso dire lo stesso di voi.» sottolineò con una sincerità disarmante.
Josmar era decisamente in imbarazzo.
«Permettetemi di condurvi dai miei servitori. Ribadisco che vi daranno conferma di quello che dico. Se siete così coraggiosa da recarvi in questo luogo senza una scorta, sicuramente non avrete timore di seguirmi per qualche passo»
Amira annuì, e gli fece segno di fare strada.
I due, superarono la vegetazione che li separava dal punto dove Josmar aveva lasciato i soldati.
Non c’era nessuno.
Amira avanzò di qualche passo, mentre il principe, immobile, osservava le dune del deserto. La principessa fece un rispettoso inchino al nulla e proclamò con parole gentili:
«Rahim, Qader, è veramente un immenso piacere fare la vostra conoscenza!»
Il principe non sapeva se ridere o piangere. Certamente, Amira, si stava divertendo molto.
«Giuro di averli lasciati qua…»
«Sono certa che lo pensiate davvero. Ma il caldo gioca dei brutti scherzi. Da quanti giorni siete nel deserto?»
La domanda della principessa era seria.
«Poco più di due.»
«E Rahim e Qader sono entrati con voi nel deserto? O li avete fortuitamente incontrati dopo?»
Josmar tentennò.
«Li ho incontrati in seguito, sì, ma vi garantisco che c’erano davvero! Mi hanno salvato la vita. Non sarei qua senza di loro.»
Amira scosse la testa.
«E dove dovrebbero essere andati, allora?»
«Questo non lo so. Non ha alcun senso…»
La povera principessa dovette sorbirsi le numerose grida di richiamo del principe, che sperava che i due soldati non si fossero allontanati troppo.
Fu lei stessa a fermarlo.
«Sentite, Josmar, non ci sono tracce lungo la sabbia, da nessuna parte. Mi avete parlato di tre dromedari e due soldati, ma non c’è nessun segno.»
«Vi dico che sarei morto senza di loro! Come potete spiegarlo, questo?»
Amira si soffermò a riflettere.
«Vi ho trovato in un’oasi. Vi sarete salvato da solo.»
Josmar scosse la testa.
«Non avevo le forze per farlo. Non è possibile.»
Il principe si lasciò cadere seduto sulla sabbia, con le mani fra i capelli.
«Io li ho visti.» ripeté più volte.
La principessa s’inginocchiò, poggiandogli una mano sulla spalla.
«Ve l’ho detto: il caldo può giocare dei brutti scherzi. Più brutti di quel che si crede. Fermatevi a riflettere. Avrebbero lasciato un segno della loro presenza. Avete qualcosa di loro con voi?»
Josmar esitò, alla fine scosse il capo.
«Allora non può essere altrimenti. Nessuna traccia, nessun segno. Li ha creati il deserto. Li conoscono in tanti come una sventura beffarda: miraggi.»
Il principe non era intenzionato a rassegnarsi.
«So cosa sono i miraggi. Non sono così complessi. Dovrei essermi completamente bevuto il cervello.»
«Da quel che mi avete detto, prima d’incontrarli avevate raggiunto il limite. La vostra mente poteva farvi credere qualsiasi cosa. Non pensiate che i miraggi siano così facili da riconoscere. É la nostra mente a generarli, sono legati a noi, a quel che sappiamo. Per noi sono reali, altrimenti non ci trarrebbero in inganno. Sono sogni a occhi aperti.»
«Oppure incubi.» aggiunse il principe.
Amira annuì.
Passarono diverso tempo a discutere, spostandosi all’ombra delle palme dell’oasi.
La principessa era veramente di gradevole compagnia.
Josmar si sentiva confuso, perso. Quella gentilezza e quel conforto erano veramente ciò di cui aveva bisogno.
E tornò il tramonto.
«Voi come siete finita qua?» Le domandò a un tratto il principe.
Amira esitò. Si era parlato soprattutto di Josmar, fino a quel momento.
«Forse a voi posso dirlo.» accennò la ragazza «Non fate parte del mio regno, né del mio popolo. Non mi giudichereste, vero?»
Aveva un viso così dolce mentre lo diceva, che Josmar si dimenticò di annuire. Si riprese appena in tempo da evitare d’apparire offensivo o ridicolo.
«Non lo farei.» le sorrise.
«Il mio ruolo mi opprime.» vuotò il sacco la ragazza «So che non dovrei pensarlo. So che dovrei rispettare le scelte di mio padre. Ma mi sento prigioniera.»
Sembrava che volesse sfogarsi da tempo. Osservava di fronte a sé, come se parlasse a uno spettro o a qualcuno in particolare.
«A volte penso che vorrei solamente scappare. Lasciarmi tutto alle spalle. Ma poi temo che sia una scelta avventata. Che non sarei capace di cavarmela da sola. In quei momenti vengo qua.»
Finalmente gli rivolse lo sguardo.
I suoi occhi erano leggermente lucidi, ma cercava di non darlo a vedere. Era una ragazza dal carattere forte, e non voleva apparire diversamente.
«Perché proprio qui?» le domandò Josmar, quasi con un sussurro.
La ragazza sorrise appena.
Era poesia osservare quegli occhi tristi che riacquisivano colore alle parole seguenti.
«Quest’oasi è il mio rifugio. In genere scappo dal mio palazzo poco prima del tramonto e faccio ritorno la mattina presto. Ma altre volte, nei giorni di preghiera, ottengo di ritirarmi in solitudine per un giorno intero. Non mi hanno ancora scoperta.» confessò divertita «É la mia piccola fuga, in qualche modo. Non ho il coraggio di non tornare indietro, ma qui mi rassereno, trovo il conforto necessario a farmi affrontare i giorni seguenti.»
Josmar sussultò appena.
«Mi spiace di aver rovinato la vostra cerimonia.» proferì sinceramente.
«Per tenervi occupata con i miei deliri, poi…»
Il principe distolse lo sguardo, amareggiato.
«Non dovete scusarvi.» lo rimproverò dolcemente lei.
«Siete stato un piacevole imprevisto. Non mi capita spesso di aprirmi, tengo tutto dentro e mi sento ancora più sola…»
Benedetto il tramonto e i colori che illuminano quelle iridi e quelle guance arrossate.
Benedetta quella mano che trova il coraggio di accarezzarle dolcemente, senza essere respinta.
Benedette quelle labbra di un rosso leggero, che si fanno sempre più vicine, conducendo gli occhi a chiudersi. Fino a che la sensazione delle bocche che si sfiorano non costringe gli altri sensi ad acquietarsi.
Il centro dell’universo è là, il resto ruota attorno.
E allora davvero, non si è più soli.


(11) Erano due amanti in una notte piena di stelle luminose. Abbracciati e immersi in quell’acqua bollente con un fuoco crepitante accanto.
Sussurravano parole solamente per l’altrui orecchio.
Un magia irripetibile frutto di un’affinità introvabile, unica, appena sfiorabile.
Josmar le accarezzava i capelli neri.
Non riusciva a distogliere i suoi occhi di smeraldo da quelli di lei; quegli zaffiri illuminati dagli astri.
Un singolo momento di sconforto lo avvolse:
«E se anche tu fossi un miraggio?»
Lei sorrise, portandosi le mani al collo.
«Ti donerò un ricordo che non sia solamente un sogno. Un ricordo vero, palpabile. Finché lo avrai con te, saprai che esisto davvero, e che ti starò pensando.»
Le sue braccia snelle sganciarono la catena d’oro con lo splendido rubino, agganciandola al suo collo.
Si scambiarono un altro bacio.


(12) Gli occhi di Josmar si aprirono.
Era giorno.
Un notte magica aveva preceduto quel dolce mattino.
Josmar era ancora incantato, ma l’arrivo del sole costrinse la sua mente a farsi più attenta.
Si guardò attorno.
Non c’era traccia di Amira.
Il suo sguardo si abbassò istantaneamente verso il collo.
Una collana d’oro, con uno splendete rubino, vi era agganciata.
Josmar emise un sospiro di sollievo.
Amira doveva essere tornata al proprio regno.
Lo aveva detto. Una principessa non poteva scomparire troppo a lungo.
Josmar cominciò a sognare una fuga che li coinvolgesse entrambi.
L’avrebbe aspettata là, fino al tramonto. Era certo che sarebbe tornata.
L’avrebbe convinta ad andare via con lui, e se si fosse dimostrata contraria, aveva sempre un’altra strada:
Lui era un principe, lei una principessa. Sarebbe tornato al suo regno e con l’autorità e il lustro che gli spettavano, l’avrebbe chiesta in sposa al sultano suo padre.
Era in preda a uno di quegli amori fulminanti.
Aveva incontrato migliaia di donne, nobili e non, con alcune aveva discusso, altre le aveva solamente osservate o sentite parlare, ma nessuna aveva quella scintilla che aveva colto in Amira.


(13) Durante la mattina, il principe decise di sgranchirsi un po’.
Non voleva allontanarsi troppo dall’oasi, anche perché non conosceva altri luoghi riparati.
I suoi passi lo condussero comunque sulla sabbia rovente.
Era intento a osservare quel mare dorato, capace di procurargli dolori e piaceri inaspettati.
«Sapevo che me n’era sfuggito uno…»
Una voce parlò alla sua sinistra. La voce di uno sconosciuto.
Era una voce profonda, sicura di sé. Intimidente.
«Sinceramente spero tu non sia né un codardo, né uno di quelli che cercano di farmi la morale.»
Josmar si voltò a osservarlo.
Si trattava di un uomo alto e imponente, con un fisico modellato dall’esperienza. I suoi capelli erano ricci e il loro nero cominciava a ingrigirsi. Il naso era adunco, gli occhi di ghiaccio, induriti da troppa consapevolezza e affaticati dalle occhiaie di una giovinezza perduta.
Era protetto da una corazza di maglia rilucente e fra le mani stringeva una scimitarra argentata sulla quale si narravano leggende. La scimitarra ch’era rimasta col destriero perduto di Josmar.
«Credo che questa sia tua.» proferì.
«É mia, ladro!» esclamò Josmar con eccessiva spavalderia principesca.
«Non m’interessano le tue ricchezze, e non sono un ladro, mi spiace deluderti.»
L’uomo si accarezzò il collo e Josmar notò una catena d’oro.
Il principe abbassò istintivamente lo sguardo verso il proprio, di collo.
La collana con il rubino era sparita.
«Come hai fatto, ladro?» esclamò sbarrando gli occhi.
«Fatto cosa?»
«Mi hai preso la collana! Restituiscimela, cane!»
Gli occhi dell’uomo s’infiammarono.
«Ho sentito bene? Mi hai appena dato del cane? Dopo avermi accusato di essere un ladro? Questo non va bene ragazzo, non va bene per niente...»
Il suo tono era adirato, ma quello di Josmar non fu da meno.
«Ti ho detto quello che sei, né più né meno. Ora restituiscimi la mia spada e la mia collana!»
L’uomo sollevo la scimitarra argentata, facendovi riflettere un raggio di sole. Tese leggermente il braccio all’indietro, per poi muoverlo in avanti con un gesto muscolare secco e potente.
La lama volò per diversi metri, fino a conficcarsi nella sabbia a poco passi da Josmar.
«La spada te l’avrei restituita comunque, idiota.»
L’uomo portò le mani alla propria schiena, afferrando il manico di un’altra spada. Il metallo sfregò il fodero legato alle sue spalle, e una lama larga il doppio fece la sua comparsa.
«Ma quella collana te la sei persa o sognata. Il caldo fa brutti scherzi.»
«Questo me l’hanno già detto.» gli rispose sprezzante Josmar, afferrando il manico della propria spada e sfilandola dalla sabbia.
«In ogni caso…» riprese l’uomo «…non c’è un solo cane che sia rimasto vivo dopo essersi azzardato a paragonarmi a lui. Quando ti avrò ucciso, domanda al signore dell’oltretomba dove si trovino coloro che sono morti sotto la spada di Husam. Se ti perdi lungo il cammino, ti basterà seguire i guati.»
I due partirono letteralmente alla carica.
Josmar non aveva idea di chi fosse quell’individuo, ma per riprendere il dono di Amira era disposto a uccidere.
Era pur sempre un principe, abituato a essere rispettato, non sfidato.
Le spade sbatterono fra loro con un forte fragore metallico.
La forza di Husam risultò evidente fin dal primo colpo. Il braccio di Josmar fu costretto a indietreggiare. Pochi istanti e il guerriero aveva già ruotato la grossa spada, per fendere lo spazio nel quale si trovava il principe. Josmar riuscì a schivare a malapena il colpo.
Era incredibile, il suo avversario aveva la lama più pesante, eppure era stato sia più forte che più rapido.
Non c’era tempo per riflettere. La lama bassa di Husam si sollevò rapidamente dalla sabbia, pronta a colpire ancora. Josmar riuscì a frapporre la lama d’argento con energia appena sufficiente a bloccare il colpo.
«Così giovane e così inesperto.»
Husam sussurrò quelle parole poco prima d’incurvare la lama, fino a renderla perpendicolare al ventre di Josmar e poi affondare.
Il principe non aveva avuto il tempo di controbattere. Aveva già perso parando maldestramente il colpo, e ora il suo sangue macchiava di rosso il mare dorato.



(14) Gli occhi di Josmar erano chiusi. Parole rimbombavano mentre il corpo restava a terra:
«Io qui ho concluso.» mormorò la prima voce.
«Era così giovane Husam.» valutò una seconda.
«Non m’interessa. Sono stato provocato, Hakim. Lo sai come reagisco quando vengo provocato.»
Un breve silenzio.
«Ti senti provocato troppo spesso, a mio giudizio.»
Un verso di protesta.
«Abbiamo passato quello che abbiamo passato, Hakim. Ci sono persone giuste e ci sono i cani. Sono sempre di più i cani, ti dico. E io, i cani, se l’incontro li ammazzo.»
Un sospiro.
«Sei veramente convinto di migliorare il mondo, in questo modo? Che ne sai se fosse un cane o meno? Hai almeno parlato, con questo?»
Ancora uno sbuffo.
«Sì che c’ho parlato. Delirava s’una collana che avevo rubato. Mi ha dato del ladro, e del cane. Lui a me! Ti rendi conto?»
Ancora un breve silenzio.
«Avevi la sua spada. Gli hai spiegato perché?»
«Non me ne ha lasciato il tempo.»
Un secondo sospiro di sconforto.
«Tu credi di sapere come gira il mondo, Husam. Ma temo che la tua voglia di usare la spada sia più forte di quella di usare la lingua. Non farai molte cose giuste, così.»
Si percepirono dei passi allontanarsi.
«Stai forse dicendo che sono stato ingiusto? Quante cose ingiuste abbiamo fatto in guerra?»
I passi continuarono ad allontanarsi. La prima voce aumentò d’intensità in proporzione a quanto si facevano distanti.
«Quante cose ingiuste ci hanno fatto in guerra, Hakim? Devo ricordarti cos’è successo a mio figlio?»
Le ultime parole sembrarono vacillanti, influenzate dal dolore.
La seconda voce, in lontananza, finalmente rispose:
«Quello che hai ammazzato, Husam, poteva esserlo tuo figlio.»
Rimase solo il silenzio.



(15) Si udì il nitrito di un cavallo e un uomo sbatté le palpebre, portando subito la mano al ventre.
La risollevò, osservandola. Non era sporca di sangue.
Poi si toccò il collo, rapidamente.
Non vi era alcuna collana.
Era sopra un destriero nero, su quale erano caricate provviste e una lama argentata sulla quale si narravano leggende.
Il suo sguardo era incredulo.
Era appena il tramonto.
Si spinse in avanti, guardando di fronte a sé.
Una terra più fertile lasciava il posto alla sabbia. Pochi passi e il deserto sarebbe rimasto alle sue spalle, un ostacolo superato.
Il principe Josmar guardò dietro di sé.
Quanto era stato in quel deserto?
Come vi era uscito?
Cos’era accaduto davvero?
C’erano stati due uomini, due soldati, uno secco e uno grasso, che lo conoscevano così bene, che sapevano far vacillare il suo desiderio di libertà con dubbi così simili ai suoi?
Lo stavano cercando ancora nel deserto?
E se sì, dov’erano scomparsi?
Erano stati uccisi?
Si erano persi a loro volta?
Che fossero tornati al regno, consapevoli che in fondo non li volesse seguire?
C’era stava davvero una collana dorata, con un grosso rubino ad adornarla?
Forse era caduta nella sabbia, forse nel lago, forse era stata rubata da un manigoldo con trucchi inspiegabili.
C’era stata davvero una principessa così bella? Così affine a lui? Coi suoi stessi problemi? Con le sue stesse pressioni?
Che pensava e diceva le stesse cose che lui ripeteva da anni?
Pronta a fuggire con lui dopo una notte magica come lo sono solo nei sogni?
E se sì, stava pensando a lui?
Lo stava cercando all’oasi chiedendosi dove fosse scomparso?
C’era stato davvero un veterano di guerra? Reso freddo dalla battaglia e la scomparsa di un figlio? Accompagnato da un uomo saggio che ne giudica le azioni con tanta accuratezza?
E se sì, perché lo aveva ferito?
Perché aveva la sua spada?
Aveva rubato la sua collana? 
Che avesse ritrovato il suo destriero e le sue cose?
Che volesse solamente restituirgliele?
Come poteva essere sopravvissuto a quella ferita?
Forse l’uomo saggio l’aveva rimesso in sesto e posto sul cammino.
Ma come?
Quanto era passato?
Quanto?
Era mai caduto da cavallo?
Il deserto era finito e avrebbe custodito quei misteri per sé.
La vita passata, era oramai alle sue spalle, il futuro in avanti, con la libertà agognata. Ma le risposte assenti.
Era tutta una prova per conquistarla, quella libertà?
Era tutto un gioco della mente del quale doveva smettere di preoccuparsi?
La sua testa era vicina a esplodere.
Avrebbe avuto tempo per scoprirlo. Era il futuro che gli dava modo di farlo, così come gli permetteva di lasciarsi il passato alle spalle.
Ora era libero, libero di scegliere.
Era quella la vera forza della la sua terribile e adorabile libertà. Superate le menzogne della mente che cercava di farlo desistere.
Senza prigioni era libero di correre i propri rischi, libero di sbagliare, libero di scoprire, libero di cercare, libero di amare, libero di morire.
Ora e sempre, avrebbe dovuto combattere coi muri imposti da sé, i più pericolosi. Trovare la forza per abbatterli senza paura e non pentirsi di quella scelta.
Sapeva che c’erano sfide insormontabili, al di là dei propri limiti, ma era in grado di accettarli, quei limiti e di combattere per distruggere i presunti tali, dietro i quali fin troppi si nascondevano passivamente, lasciando morire la propria libertà, consolandosi con sconfortanti parole in merito alla sua inesistenza.
Poteva sembrare un battaglia fine a se stessa, senza un risultato che non fosse quello d’essere liberi, ma un uomo che si rendeva schiavo, andava inevitabilmente e sempre contro il proprio interesse, generava da sé la propria sconfitta, anche vivendo in un castello fatto d’oro, anche distraendosi con mille notti di finto amore. Erano vite fatte di nulla.
Un uomo libero, invece, anche nella sofferenze rendeva alla vita uno schiaffo di forza incalcolabile, poiché per un uomo libero, la sconfitta non esisteva neanche nella morte.
Josmar era illuminato dalla propria consapevolezza, da l’esperienza che quel viaggio aspro, misterioso, piacevole e doloroso, gli aveva donato.
Avanzava libero verso la sua vita, che cominciava realmente da ora.

Un tremito lo colse.
Sempre che anche quello, non fosse un miraggio.


Fine…?

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