2 ott 2016

La terra del fulmine rosso

La spolverata di oggi tocca a "La terra del fulmine rosso". Una delle storie "brevi" più lunghette, per la quale ricorrerò ai classici paragrafi numerati. I nomi dei personaggi derivano dalla mitologia inca, che ho nascosto qua e là, ma in un racconto del tutto indipendente e con le sue licenze. Non è adatta ai bambini.
Buona lettura:

La terra del fulmine rosso


LE TERRE TUONERANNO PER I FULMINI

I FIGLI DI APOCATEQUIL.

IL TIMORE RENDERÀ GLI UOMINI UMILI

ED ESSI AVRANNO LA PACE.

LA CONDANNA È IL DESTINO

PER CHI SI MACCHIERÀ DI SUPERBIA

FINO A SFIDARE GLI DEI.

L’INSOLENZA SARÀ DISTRUTTA.

IL SEGNO DAL CIELO

ALLA CADUTA DEL FULMINE ROSSO.


(1) Era il tramonto.
Inti osservava la sua terra seduto sopra una roccia. Un luogo maestoso, magico, circondato da monti imponenti e percorso da silenti melodie.
Alle sue spalle si ergeva la città, di fronte a sé l’abisso. Amava stazionare sull’orlo.
Il suo sguardo si mosse verso il sole, tinto d’arancio, un fratello benevolo.
Sapeva che la pace non sarebbe durata a lungo.
Rombò un tuono e una serie di fulmini caddero dal cielo, intrecciandosi e cingendo le materne alture.
Venne colto da un brivido. Accadeva regolarmente, ma era difficile resistere a quell’inconscio timore.
I fulmini erano la manifestazione del dio Apocatequil, il segno della sua tutela. Un dono che intimoriva sia i nemici che i protetti.
Inti sospirò e scese dalla roccia. Il cielo si stava scurendo ed era meglio tornare a casa.

(2) Il ragazzo abitava in una delle numerose case popolari, lontano dal grande tempio di Apocatequil. Era nato in una famiglia di lavoratori, un granello della forza del popolo, ma non se ne lamentava. La vita era serena e non gli serviva più di quel che gli era stato dato. Il valore dell’umiltà veniva insegnato presto, così che non si peccasse di superbia: la sfida agli dei.

(3) Inti raggiunse l’uscio di casa. All’interno lo aspettava la sua famiglia e una scodella di cibo caldo.
Sarebbe stata sua madre Chasca a porgergliela, come sempre. Una donna pacata, che si occupava di tutti loro senza pretendere un grazie.
Suo padre Pacha, invece, si sarebbe lamentato di un presunto ritardo. Era un uomo di fede, un costruttore instancabile costretto a riposo da un grave infortunio alla gamba. La sua severità si abbatteva specialmente su Kon e Coyllur.
Il primo era il fratello maggiore di Inti e aveva sostituito il padre a lavoro. Si trattava di un compito ingrato e faticoso, che gli lasciava a mala pena il tempo di mangiare e dormire.
La seconda era sua sorella minore: vitale, spensierata e terribilmente invadente. Uno spirito libero amato della madre e, per le stesse ragioni, tenuto d’occhio dal padre.
Li caratterizzavano la carnagione rossa, i capelli neri e gli occhi di un castano intenso. Le donne portavano lunghe trecce e gli uomini un taglio corto, che non fosse d’impiccio a lavoro. Solamente i nobili potevano permettersi capelli lunghi e sciolti. 

(4) Inti fece il suo ingresso.
La loro casa era modesta: composta da una sala centrale e due stanze per il riposo. La seconda era persino un lusso.
«Il tuo cibo è diventato freddo.»
La voce lamentevole del padre non tardò di un istante.
Inti gli sorrise e, senza obiettare, prese la sua scodella e iniziò a mangiare. Perché sottrargli quello svago?
Il cibo era ancora caldo, era chiaro che avessero appena iniziato.
Mentre suo padre l’osservava torvamente, sua madre si sedette. S’imponeva di farlo quando erano tutti presenti e si riservava sempre la scodella più vuota. 
Coyllur provvide a versarle parte del proprio pasto.
«Me ne hai dato troppo.» affermò con un sorriso.
Mentre Chasca arrossiva e scuoteva il capo, Pacha intervenne.
In un istante riversò l’offerta della figlia al suo posto.
«Devi mangiare.» intimò, senza guardarla negli occhi «Se non metterai su un po’ di carne non troverai mai un uomo. Non sarai abbastanza fertile. E renderai impossibile che ti noti qualcuno delle alte caste.»
«Forse non è il futuro che Coyllur desidera.» sussurrò la madre.
«Ma è il futuro che, noi, ci auguriamo.» decretò Pacha.
Coyllur non era una ragazza mite ed era già pronta a ribattere, ma in quell’istante Kon si alzò bruscamente. La sua scodella era già vuota.
«Vado a riposarmi…» mormorò, per poi dirigersi a letto.
«Devi aspettare che finisca il capo famiglia!» sbraitò Pacha, ma il figlio era troppo stanco per dargli corda e non si fermò.
«Non voleva mancarti di rispetto.» gli assicurò Chasca, sfiorandogli una spalla «Sai bene quanto è duro il suo lavoro.»
Pacha scosse il capo.
«L’ho fatto per decadi e non ho mai dimostrato impertinenza!»
Inti era abituato a quelle ripetitive discussioni famigliari. Preferiva ascoltarle piuttosto che gettarvisi a capofitto, comprendere cosa si nascondesse dietro le parole.
Aveva imparato dalla madre a capire le persone, e proprio perché le capiva era difficile che se la prendesse, o che perdesse il controllo.
In quel momento si chiedeva a cosa, il senso del dovere del padre, lo avesse effettivamente portato. Aveva sempre ammirato la sua fierezza, ma si chiedeva se fosse giusto che, il frutto di una tale inflessibilità, fosse l’immobilità a una gamba.
Sapeva che il padre, più che domandarsi questo, si dannava e riteneva inutile.
«Quel ragazzo non ha rispetto degli dei.» bofonchiò proprio in quel momento.
Coyllur scosse la testa.
«Ma certo che è rispettoso, Pacha.» provò a rasserenarlo la moglie.
«Dovrebbe sapere cos’accade ai superbi!» proseguì il marito, alzando la voce «La condanna è il destino, per chi si macchierà di superbia, fino a sfidare gli dei. L’insolenza sarà distrutta! Il segno dal cielo, alla caduta del fulmine rosso!»
Inti aveva perso il conto di quante volte, il padre, avesse citato la sacra incisione del tempio. Una profezia remota.
«Calmati Pacha, sono certa che non pioverà nessun fulmine rosso, e che Apocatequil perdonerà nostro figlio, che fa il proprio dovere ogni giorno.»
Il padre di famiglia, finalmente, si rilassò. Aveva bisogno di rifarsi alla fede per schermarsi da ciò che la stessa fede gli faceva temere.
«Mi auguro sia così...»

(5) Con l’incombere della notte, tutta la famiglia andò a riposare.
Per Inti il sonno fu agitato. Sognò uomini sconosciuti, che non temevano i fulmini. Li vide rubare, uccidere, dar fuoco alle case.
Furono gli stessi fulmini a svegliarlo, di soprassalto.
Si tirò su, accorgendosi che i fratelli dormivano ancora.
Era agitato, e si domandò se quel sogno non custodisse un oscuro significato.
Suo padre lo avrebbe certamente deriso. Tutti temevano i fulmini di Apocatequil,  solo uno sciocco avrebbe creduto il contrario. Eppure il timore non venne meno.
Decise di uscire di casa, per osservare le stelle e tranquillizzarsi.
Appena mise un piede fuori si accorse che gli astri erano più luminose che mai. Non aveva mai visto la luna così immensa e maestosa.
Guidato da una luce argentata, Inti si diresse al suo posto preferito: la soglia dell’abisso.
Notò subito che sopra la sua roccia si ergeva qualcuno, di spalle, che osservava la grande luna.
Senza volerlo strusciò sul pietrisco e lo sconosciuto si voltò, permettendo ai raggi argentei d’irradiarne il viso.
Era una giovane donna. I suoi lunghi capelli neri erano sciolti, ma fu ben altro a catturare l’attenzione del ragazzo: iridi argentate come i raggi della luna.
Doveva essere una visione.
Lui piuttosto, agli occhi di lei, pareva un’ombra sbucata dal nulla, e spaventarsi fu un’ovvia reazione. Conseguì la perdita dell’equilibrio.
Inti si risvegliò dall’incanto e scattò in avanti, tirandola verso di sé con tutte le forze.
Caddero entrambi, fortuitamente dal lato giusto.
«Chi sei?» ansimò la ragazza.
Inti, scosso, tentennò. Era sopra di lui e la cosa lo metteva piacevolmente a disagio.
Deglutì.
«Mi chiami Inti.»
La ragazza lo fissò, realizzando quale fosse la loro insolita posizione. Si sollevò di scatto, imbarazzata, rischiando di capitombolare una seconda volta.
«Non volevo spaventarti, perdonami.» si scusò lui, alzandosi a sua volta «Per fortuna è andato tutto bene.» aggiunse grattandosi il capo.
Gli occhi della ragazza brillavano argentei. Non era merito di un riflesso lunare, erano proprio di quel colore. Ora, però, sembravano infiammati dall’ira.
«Tutto bene?» gli fece il verso «Stavi per farmi cadere! E se non te ne sei accorto non ho ancora le ali!»
Il ragazzo era ancora un po’ confuso.
«Vuoi dire che un giorno avrai le ali…?»
La fece ammutolire.
Si osservarono ancora per qualche istante, in silenzio e Inti realizzò quanto fosse stata stupida la sua replica; ma ormai era troppo tardi. La ragazza si stava già allontanando.
«Non… non mi hai detto come ti chiami!»
Non ricevette alcuna risposta.

(6) Inti tornò a casa, maledicendosi per la sua goffaggine. Non si aspettava una nottata simile e, tralasciando il rischio di cadere in un abisso profondo migliaia di metri, l’incontro con la ragazza gli era rimasto impresso.
Quegli occhi erano magnifici, come il suo viso, persino quando era arrabbiata.
Era certo che appartenesse alle alte caste. Non indossava abiti logori come i suoi e aveva notato persino qualche gioiello.
Il ragazzo si sdraiò nel proprio letto, addormentandosi serenamente. Gli incubi, ora, cedevano il posto a piacevoli sogni.

(7) La mattina seguente si alzarono tutti di buona lena. Era una giornata importante: la festa della nascita della famiglia reale.
Nelle loro vene scorreva il sangue divino di Apocatequil, fattosi uomo e unitosi a una donna per dare vita al primo sovrano: Kamaq.
I successori di Kamaq, protetti dal dio, governavano di diritto quelle terre e diffondevano il suo verbo come legge.
Ora i regnati erano Qhapaq e Coya. Devoti come conveniva.
I nobili prediligevano un netto distacco coi poveri lavoratori. Non disperdere il sangue era fondamentale e da secoli i sovrani sposavano le loro cugine o persino sorelle.
Qhapaq e Coya erano appunto cugini, ma sulla regina circolavano dicerie, che volevano fosse una trovatella di umili origini, poi adottata.
In ogni caso, quel giorno, la famiglia reale sarebbe stata celebrata sia dai nobili che dal popolo, coinvolgendo l’intera città.
I sovrani si mostravano raramente al volgo, proprio per preservare il distacco, e questo rendeva la gente ancor più curiosa.
Inti e i suoi fratelli si unirono alla folla che camminava verso l’alto tempio. Loro padre, con grande sconforto, era dovuto rimanere a casa, e sua moglie, per non lasciarlo solo, aveva fatto altrettanto.
Kon non sembrava entusiasta, avrebbe preferito approfittare della festa per riposare un giorno interno, ma Pacha lo aveva obbligato a partecipare.
Inti e Coyllur lo persero di vista rapidamente, era facile fra tanta gente. Loro, infatti, si tenevano per mano.
Le persone si accalcavano, felicitanti, attendendo che i sovrani si mostrassero. La musica popolare riecheggiava fra i monti, alimentando l’entusiasmo.
Gli appartenenti alle alte caste si trovavano ai piedi del tempio: un imponente edificio piramidale, fatto di levigati gradoni in pietra. La cima era d’oro splendente e lì si ergeva la tavola della profezia.
Nobili e sacerdoti sfoggiavano abiti piumati e dai colori forti, adornati da ricchi gioielli. Per la povera gente era uno spettacolo.
Coyllur si guardava attorno, affascinata, indicando a Inti tutto quel che la lasciava a bocca aperta.
Si percepì un vibrazione intensa e gli strumenti suonarono con forza. La famiglia reale stava arrivando.
Le grida si levarono alte, unendosi ai ritmi accelerati. Frenetici danzatori precedettero i sovrani, mentre candidi giovani lanciavano petali tutt’attorno.
Un lettiga d’oro, impreziosita da bassorilievi, uscì dal tempio.
La famiglia reale non doveva muovere un passo. Fedeli e robusti servitori se ne facevano carico.
I sovrani sfavillavano. Portavano collane, anelli, bracciali e orecchini d’oro adornati da gemme; abiti di lana fine con trame maestose e regali corone ornate delle piume dei volatili più rari. Nessuno reggeva il confronto.
Il popolo giubilava. Di fronte alla bellezza dei figli degli dei svanivano le fatiche e il dissenso.
Inti e Coyllur cercarono di avvicinarsi, come tanti, la gente si parava la vista continuamente. Quando ormai erano a un passo da loro, Inti si lasciò distrarre: una seconda lettiga stava uscendo dal tempio.
«Chi è?» domandò alla sorella, esterrefatto.
Il frastuono era tale che fu costretto a ripeté la domanda. Coyllur gli rispose, ma questa volta fu lui a non sentire.
La lettiga avanzava. Portava una persona sola, adornata da un abito bianco e una corona di petali.
«È la figlia dei sovrani!»
Le parole di Coyllur erano finalmente chiare.
«La principessa Quilla! Ha raggiunto la maggiore età e si mostra a noi per la prima volta. Non lo sapevi?»
Inti scorse le iridi argentate.
«Non è possibile…»

(8) La festa si concluse al calar del tramonto.
Inti e Coyllur rientrarono a casa, Kon lo aveva fatto molto prima e stava già dormendo.
Il padre volle conoscere ogni dettaglio e la severità venne meno, grazie alla curiosità. Poi andarono tutti a letto. 
«Ti piace la principessa Quilla, vero?» la vocina saccente di Coyllur svegliò Inti.
«Che razza di domanda è?» si lamentò.
«L’hai fissata tutto il tempo, incantato. Ignorando un sacco delle mie domande.»
A Inti venne da ridere.
«Ti ignoro sempre.» ribatté.
«Ma non mentre fissi una principessa.»
«Ora riposiamo, dai.» provò a tagliar corto, girandosi dall’altra parte.
«Pensi di sognarla?»
«Oh… lasciami in pace!»
Coyllur ridacchiò acutamente, cercando di soffocare il rumore, ma senza riuscirvi.
Inti scosse la testa, rassegnato; poi si tirò su.
Le raccontò del loro incontro, convinto che si acquietasse; ma quella, al contrario, cominciò a riempirlo di domande.
Continuarono a parlare finché i lamenti di Kon non li costrinsero a smettere.

(9) La mattina seguente, Inti, doveva svolgere un lavoro importante: assieme ad altri giovani avrebbe portato delle merci in un villaggio vicino, uno dei tanti che sottostavano al loro sovrano.
I beni appartenevano a un nobile per il quale aveva lavorato. Inti, dimostrandosi pacato, era riuscito a farsi scegliere anche per questo compito.  
Le alte caste, però, non si fidavano mai troppo e per questo la spedizione sarebbe stata guidata da un uomo di fiducia, che avrebbe gestito le trattative. A Inti e gli altri spettava semplicemente un lavoro da soma.
Erano una dozzina, con lama al seguito. Il viaggio era principalmente in discesa, lungo percorsi stretti e impervi, ricavati nei secoli. Per fortuna avevano degli ottimi polmoni.
Solamente il paesaggio rendeva il cammino interessante. I lavoratori non spezzavano mai il silenzio, un privilegio che spettava al capo della spedizione, per strillare ordini.
La prima breve sosta arrivò dopo ore, vicino a un lungo ponte di corda.
Era un ponte molto stabile, sebbene un occhio inesperto l’avrebbe considerato spaventosamente traballante.
Inti osservava la sponda opposta, occultata dalla nebbia. Non erano ancora arrivati degli ordini e si godeva il momento.
Dal cielo esplosero i fulmini di Apocatequil.
Fu in quell’istante che, dalla nebbia, eruppe un nugolo di frecce.
Inti ebbe solamente il tempo di buttarsi a terra.
Gli uomini della spedizione vennero trapassati brutalmente dai dardi. Coloro che non erano morti sul colpo si lamentavano dolorosamente.
Inti volse lo sguardo alla nebbia, terrorizzato, cogliendo il contorno di uomini sconosciuti e dei loro archi. Non capiva quanti fossero, né che aspetto avessero, ma riportarono alla sua mente il terribile incubo.
Uno degli uomini si avvicinò al ponte di corda, mostrandosi involontariamente: aveva una carnagione olivastra, il naso schiacciato ed era privo di capelli.
Si allisciò i baffi scuri e sottili, osservando il massacro.
Il suo corpo era protetto da un abito di opaco metallo e portava al fianco una lunga lama ricurva. Il popolo di Inti non era in grado di forgiare niente del genere.
Lo straniero strinse gli occhi neri, con un’espressione di disprezzo e arroganza; cercava di capire se vi fossero superstiti.
Inti era immobile. Avrebbero attraversato il ponte, prima o poi, e quella sarebbe stata la sua fine.
Fissò il corpo di una delle guardie che li accompagnavano e chiamò a sé il coraggio. C’era una sola cosa che poteva fare.
Corse.
Sottrasse al cadavere il coltello tumi, mentre l’uomo sull’altra sponda si accorgeva di lui. Con la lama, Inti, cominciò a recidere le corde del ponte.
Lo straniero gridò furiosamente in una lingua sconosciuta.
Il ragazzo sentì gli archi tendersi, ma continuò a recidere le corde disperatamente.
Il ponte cedette.
Il frastuono fu assordante, le corde frustavano l’aria mentre frammenti di legno volavano ai quattro venti.
Fra le grida si udì un sibilo.
Inti fu colpito a una spalla, mentre un’altra freccia gli graffiava la gamba.
Urlò, spalancando gli occhi. Solamente l’istinto di sopravvivenza gli consentì di soffocare il dolore e riprendere a correre, ansimando, soffrendo; senza voltarsi, senza pensare.

(10) Fu ritrovato ai piedi della città, poco prima del calar della notte. Il dolore lo aveva fatto svenire.
La famiglia era disperata, nessuno sapeva cosa fosse accaduto, ma le guardie del re Qhapaq portarono Inti lontano dai suoi cari, senza dare spiegazioni.
I fulmini piovevano impetuosamente.

(11) Si risvegliò in un letto comodo.
Aprì gli occhi a fatica, sentendo subito una fitta alla spalla. Provò istintivamente a toccarla, ma una mano bloccò la sua.
Una ragazza con un candido abito bianco l’osservava coi suoi occhi argentei.

(12) Avevano fatto il possibile per la sua ferita, ora cosparsa di unguenti che odoravano in modo strano.
La principessa Quilla non era la sola a guardarlo, c’erano diversi uomini: sacerdoti e nobili. In lontananza, Inti, vide persino re Qhapaq.
Gli venero poste tante, troppe domande, non sempre in maniera gentile. Il ragazzo provò a spiegarsi: parlò del ponte, della nebbia, dell’agguato, dello straniero e la sua lama. Ammise di aver fatto crollare il ponte per non essere seguito.
Tutti lo ascoltarono con crescente stupore.
«E vorreste credere a questo miserabile?» domandò un nobile.
«Aveva una freccia nella carne e abbiamo ricevuto conferma che facesse parte della spedizione.» ribatté un sacerdote.
«Ma questi uomini di cui parla, chi sono?» chiese un altro nobile.
«Un esercito per invaderci?»
L’ipotesi di un secondo sacerdote fu esposta tremolando.
«Ah! Chi potrebbe osare invaderci?» rise il primo nobile.
«Qualcuno con armi affilate.» replicò il primo sacerdote.
«Se fossero tanto folli Apocatequil li punirà.»
Il secondo nobile sembrava davvero convinto.
«Ma hanno colpito durante il tuono.» gemé il secondo sacerdote «Non lo temono!»
«Non lo rispettano!» precisò il primo nobile, sprezzante.
«Sono superbi!» gli diede corda il secondo.
Re Qhapaq scosse la testa.
«Non hanno paura dei fulmini.» considerò inquieto.
«Ne avranno del fulmine rosso.» 
Il primo sacerdote intendeva rincuorarlo, ma Qhapaq ebbe un sussulto.

(13) Le autorità si mobilitarono: coloro che erano in grado di combattere vennero chiamati alle armi. Un vero e proprio evento, per un società che non era più abituata a essere sfidata.
Gli uomini saggi s’interrogavano sul da farsi e molti ritenevano che Apocatequil si sarebbe occupato di tutto. Il popolo pensava lo stesso.

(14) Inti, in quei giorni, venne accudito a palazzo per volere della principessa Quilla, che lo andò a trovare spesso.
Fu lui a chiederle:
«Perché stai facendo tutto questo?»
La principessa non gli rispose subito.
«Perché tu hai salvato me. Volevo ricambiare»
Il ragazzo non parve comprendere.
«Ero convinto di averti spaventata, non di averti salvato.» 
«Non è stata colpa tua, sono stata incauta. Ma ero impaurita e quindi arrabbiata.» chiarì lei, ostentando criterio. 
Lui, tuttavia, sembrava ancora dubbioso.
«Hai avuto il merito di dimostrare prontezza, allora come al ponte. Sono in debito con te. Siamo, in debito con te.»
Inti si sentiva stupido. Si era guadagnato un debito con una principessa e non se n’era nemmeno accorto? Era così ingenuo?
«Che facevi lì, quella notte?» le domandò, ignorando tutto il resto.
La principessa sussultò, parve persino indispettirsi.
«Io… non avrei dovuto essere là, hai ragione. Ti prego di non dire a nessuno del nostro incontro.»
Adesso custodiva anche i segreti di una principessa, stava facendo progressi.
«Quindi perché eri là?» insistette, divertito.
Lei si avvicinò tantissimo e Inti ammutolì.
«Per essere libera.» sussurrò con un mezzo sorriso.
Poi si allontanò, quasi beffardamente. Il ragazzo non riuscì a fare a meno di sorridere a sua volta.
«Se vuoi, quando sarà tutto finito, ti farò compagnia, lì, sull’abisso.»
Si sentì uno stupido anche per averlo solamente pensato.
«Per proteggermi se dovessi rischiare di cadere ancora?» gli domandò Quilla.
Inti, involontariamente, si sentì felice.
«Sì, per proteggerti.»

(15) All’alba, gli stranieri che non temevano i fulmini, arrivarono.
Molti pensavano fossero tornati indietro o che Apocatequil li avesse folgorati tutti; ma così non era.
Centinaia di loro, con spade affilate, invasero la città.
L’uomo scorto da Inti era il loro condottiero e si chiamava Supay. Assieme ai suoi guerrieri massacrò l’esercito di Qhapaq.
La città venne messa al sacco, fra gli omicidi e le nefandezze. Il re fu deposto e imprigionato da Supay, assieme alla sua famiglia.
Inti finì in cella coi nobili del palazzo. Con amara ironia venne confuso per uno di loro. Il destino, in ogni caso, era uguale per tutti: servire o morire.

(16) I giorni seguenti furono carichi di notizie terribili, portate da coloro che gli stranieri adoperavano come servi.
Inti scoprì che Kon era morto combattendo per l’esercito reale. Pianse fino a non avere più lacrime.
La sua famiglia era distrutta. Suo padre aveva perso la fede e la sua condizione era peggiorata, portandolo a cadere vittima della febbre e un delirio costante. Il regime di Supay non consentiva alla moglie di aiutarlo e sua sorella era stata fustigata per aver provato a uscire dalla città, alla ricerca di erbe medicinali.
Si diceva che, il re, avesse invocato la maledizione del fulmine rosso su Supay e che questi avesse riso sadicamente. Egli aveva combattuto nella tempesta fin dalla nascita, sfidando il fulmine in battaglia e sconfiggendolo. I loro dei erano morti.     
Lo straniero voleva che Qhapaq si piegasse a lui. Aveva assassinato la regina Coya per costringerlo e ora minacciava sua figlia.
Tutti dicevano che il re avrebbe ceduto e che il regno era giunto al termine.
I fulmini non cadevano da giorni.

(17) Inti era seduto nella cella, circondato da uomini che non erano più tali. Erano vermi, cadaveri, bestie o squilibrati.
Li nutrivano poco e bisognava lottare, per avere abbastanza.
Inti era giovane e abituato a una vita dura, ma avrebbe cominciato presto a patire quanto gli altri.
I suoi sensi erano ovattati e non badò a uno strano tintinnio metallico. Seguì un grido strozzato e qualcuno sfondò la porta che conduceva alla loro cella, qualcosa che nessuno poteva ignorare.
Inti sbarrò gli occhi. Erano un gruppo di persone, soldati del suo popolo.
Che stava accadendo?
Qualcuno si avvicinò a forzare la cella.
«Kon?»
Inti non riusciva a credere ai suoi occhi.
Il fratello alzò lo sguardo e gli rivolse un mezzo sorriso, una cosa che non gli vedeva fare da molto tempo.
«Mi avevano detto che eri morto, che tutti quelli che hanno combattuto contro Supay sono morti!»
Kon scosse il capo, il meccanismo della porta cedette.
«Supay diffonde menzogne, fratello mio, per distruggere le vostre speranze.»
Gli uomini che non erano più tali si rianimarono, uscendo dalla cella come saette.
«Non siamo tanto numerosi da poter distruggere il suo esercito, non lo siamo mai stati.» riprese Kon «Ma conosciamo meglio la nostra terra. Siamo qui per liberare il re e per uccidere Supay. Ci aiuterai, fratello?»
Inti si limitò ad annuire.

(18) I ribelli liberarono tutti i prigionieri. Alcuni si univano alla battaglia, altri pensavano a salvar la pelle.
Avevano rubato le lame affilate ai nemici uccisi e avevano scoperto quanto fossero mortali.
Kon, Inti e tutti loro, correvano verso la stanza del re: l’alloggio di Supay. 
In quella sala, il capo degli stranieri, all’oscuro dell’accaduto, aveva fatto condurre ai suoi piedi e coi polsi legati re Qhapaq e sua figlia Quilla.
I suoi occhi a fessura li osservavano torvamente.
«Oggi cederai, Qhapaq. Non ho più voglia di giocare con te.»
Le torture subite dal sovrano erano evidenti. 
«Cos’altro vuoi, Supay? Mi chiedi i segreti dei miei alleati, di svendere la mia gente. E per cosa? Per morire?»
Qhapaq era affaticato, ma cercava di tenere il capo ancora alto.
«Puoi risparmiare al tuo popolo inutili sofferenze. Rivelargli le verità che gli celi. Accetta la morte dei vostri dei! La guerra potrebbe durare ancora a lungo, se gli eserciti saranno pronti a sacrificarsi per Apocatequil. Voglio che la tua voce annienti la loro speranza. Che razza di sovrano sei, se mi costringi a massacrarli? A farli annegare nel loro stesso sangue?»
Qhapaq ebbe un fremito.
«Non conta niente la morte della tua sposa? Vuoi sentir gridare così un intero popolo? Essere ricordato come un codardo? Dammi ciò che chiedo e farò che la storia ti ricordi come un sovrano illuminato. Il mezzo sangue cha ha ceduto il trono a un vero dio. L’era di Apocatequil finirà, e sarà l’era di Supay, che non teme il fulmine!»
Qhapaq chinò il capo, con gli occhi bagnati dalle lacrime per Coya.
«La tua superbia sarà la tua condanna…» sussurrò.
Supay afferrò l’oggetto più vicino, frantumandolo a terra in uno scoppio d’ira.
«Sono stanco di sentire queste parole!» sbottò «La tua mente è vuota! La tua comprensione è nulla! Mi costringi a distruggervi! Mi costringi a spezzare le vostre ossa fino a farvi piegare!»
Supay si avvicinò al sovrano con veemenza, poi afferrò il collo di Quilla, sollevandola da terra.
«No!» gridò Qhapaq, disperato.
«Sei tu che mi obblighi a farlo!»
Gli occhi di Supay era iniettati di sangue.
«Quando sarà morta ti resterà solamente la tua vita, da spartire; assieme al risentimento...»
Supay si avvicinò alla terrazza del palazzo, tenendo Quilla sospesa sull’abisso. Qhapaq gridava e supplicava il nemico di fermarsi, ma questi aveva smesso di ascoltarlo.
I ribelli sfondarono le porte della sala, riversandovici come lupi affamati. Le guardie di Supay caddero infilzate sotto i colpi del popolo oppresso.
Il condottiero estero sbarrò gli occhi. Era preda d’intenzioni indecifrabili.
Lasciò cadere Quilla.
L’urlo di Inti fece vibrare la sala. Il ragazzo caricò Supay a testa bassa, impattandovi contro.
Il robusto condottiero perse l’equilibrio, seguendo la principessa nell’abisso.
Fu la mano di Kon a impedire al fratello di cadere a sua volta. Lo salvò con la stessa prontezza che aveva avuto lui quella la notte, salvando Quilla.
Inti si strinse al petto di Kon, fra le lacrime e i singhiozzi. Incapace di accettare quel che era appena successo.
Qhapaq si era alzato in piedi e osservava il punto nel quale era caduta sua figlia.
Le lacrime rigavano le sue guance e le labbra si mossero per recitare le parole della remota profezia:
«Le terre tuoneranno per i fulmini, i figli di Apocatequil. Il timore renderà gli uomini umili, ed essi avranno la pace. La condanna è il destino, per chi si macchierà di superbia, fino a sfidare gli dei. L’insolenza sarà distrutta. Il segno dal cielo, alla caduta del fulmine rosso.»
I fulmini esplosero accecanti.

(19) Si ritiene sia leggenda, la fine di questa storia. Ciò che è vero e ciò che è falso, a nessuno è dato sapere.
Ma si dice che i guerrieri di Supay fuggirono da quelle terre, quando seppero che il loro signore era stato arso vivo da un fulmine rosso.
Si parla del volere degli dei, della salvezza di un popolo grazie al dio patrono Apocatequil, e la gente si sente protetta, pur temendo il suo tuono, nella terra del fulmine rosso.
C’è anche chi dice che le cose cambiarono, da allora; che il popolo e i nobili si avvicinarono, dopo che il sangue di entrambi era stato versato.
Alcuni sostengono che la figlia del sovrano ascese, come una pura vergine, al regno della luna, e c’è chi pensa che, il valoroso guerriero Inti, ascese al regno del sole. Alcuni li adorano ancora oggi, come dei, amanti, separati dalla notte e il giorno e dalla altrui crudeltà.
Si vocifera che la figlia del sovrano, dalla nascita, avesse una voglia sulla spalla. Un presagio: una piccola saetta tinta di rosso.
I sacerdoti pensavano che fosse un simbolo, il segno di un destino.
Si dice che l’ultima cosa che vide Supay, prima di morire, fu la voglia sulla spalla della ragazza.


IL SEGNO DAL CIELO
ALLA CADUTA DEL FULMINE ROSSO


Fine

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